Bruxelles – Innanzitutto ricordarsi di mettere le lancette avanti o indietro, e poi prepararsi a contrastare gli effetti collaterali da ‘cambio dell’ora’. Cerchi alla testa, stanchezza, senso di spossatezza, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione. Alzi la mano chi non ha mai sofferto di almeno una di queste cose ogni volta che scattano l’ora legale o l’ora solare. Alzi adesso la mano chi vuole abolire tutto questo. E’ quello che potrebbe chiedere il Parlamento europeo secondo una risoluzione che intende cancellare la pratica, tutta comunitaria e prevista da tanto di direttiva in materia, di anticipare l’orario di 60 minuti rispetto all’ora del resto dell’anno a partire dall’ultima domenica di marzo, per poi tornare alla normalità con l’ultima domenica di ottobre.
Nessuno scherzo. I due autorevoli parlamentari Pavel Svoboda e Karima Delli, e con loro una parte di Ppe e Verdi, fanno sul serio. A fronte di tanto stress per le persone i benefici economici non sono chiari e, anzi, probabilmente addirittura non ci sono. La risoluzione che l’Aula discuterà in questa sessione plenaria e che sarà al voto giovedì, parla chiaro. “Numerosi studi scientifici non sono riusciti a dimostrare alcun effetto positivo del cambiamento semestrale dell’ora e, al contrario, hanno segnalato l’esistenza di effetti negativi sulla salute umana, l’agricoltura e la sicurezza della circolazione stradale”. Da qui la richiesta di cambiare le regole che, a detta dei sostenitori della risoluzione, potrebbe giovare all’economica grazie a persone meno distratte, meno stanche e più reattive sul posto di lavoro.
E’ l’ora di abolire l’ora. Quella legale, voluta – questa volta sì che è il caso di dirlo – dall’Europa. In nome del mercato unico e dell’armonizzazione, parola che indica la volontà e l’esigenza di regolare tutto ciò che lo è in modo frammentato e senza una logica organica. Gli Stati membri dell’Ue introdussero in ordine sparso il regime della doppia ora quale escamotage per ridurre l’impatto della crisi energetica, nel corso dei primi anni Settanta. L’Europa, come Comunità economica europea, già nel 1981 ha iniziato a mettere mano alla questione, risolta con l’attuale direttiva (presentata nel 2000, approvata nel 2001, ed entrata in vigore nel 2002) che ogni anno fa regolare gli orologi di tutta casa due volte. Non solo. “Per motivi di chiarezza e precisione dell’informazione – recita la normativa Ue – occorre fissare e pubblicare ogni cinque anni il calendario di applicazione del periodo di ora legale per i cinque anni successivi”. Nel 2019 scatterà l’ora della nuovo calendario quinquennale, appuntamento a cui il Parlamento europeo non intende presentarsi.
I promotori della risoluzione vorrebbero che il Parlamento europeo invitasse la Commissione a “interrompere l’attuale cambiamento semestrale dell’ora proponendo una modifica della direttiva”. Via l’ora legale, quindi. O almeno, questo è l’interno di Svoboda. L’esito del voto è incerto, perché lasciato ai singoli europarlamentari liberi da logiche di gruppi e di partito. Ma soprattutto la questione pone e ripropone la contrapposizione tra nord e sud d’Europa: i nordici vorrebbero mantenere l’ora legale, i popoli del sud quella solare. Questione di qualità della vita, in entrambi i casi.
La sfida delle lancette ripropone poi lo scontro tutto istituzionale tra Commissione e Parlamento. Già nel 2015 l’Aula aveva provato a regolare i conti (e l’ora) una volta per tutte. Aveva chiesto all’esecutivo comunitario se non fosse il caso rivedere la direttiva del 2000, chiedendo di fornire una stima dei benefici e dei costi economici che risultano dal cambio di orario. Il team Juncker non volle entrare nel dibattito. Questa la risposta di quasi tre anni fa: “Ciò che conta per questa Commissione è essere grande sulle grandi cose, e questo dibattito ricorrente, per quanto interessante, non fa parte di esse”.
Il Parlamento ci riprova. Tra gli emendamenti si chiede alla Commissione di fornire quei dati finora negati. Vorrebbe dire rinunciare all’idea di fermare l’ora legale e i mal di testa annessi. Sempre che poi l’esecutivo comunitario cambiasse idea, facendo dei regimi orari una questione ‘grande’.