Roma – “I Paesi che vogliono accedere ai mercati europei devono garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori e un salario minimo corrispondente a una vita dignitosa”. Con questo obbiettivo il ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, annuncia che “tra due settimane” presenterà una proposta all’Unione europea per “inserire negli accordi commerciali una clausola molto precisa contro il dumping sociale”.
Partecipando all’apertura della Conferenza nazionale della cooperazione allo sviluppo, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il ministro ha anche indicato la necessità di rendere gli aiuti internazionali “sempre più asse portante della strategia di investimento del nostro paese” e dell’Ue. Bisogna farlo “non solo per senso di responsabilità”, ma “perché ne va della sicurezza e della tenuta dello stesso continente europeo e dell’Unione europea”, e perché può essere “un ottimo rimedio per la dimensione ancora troppo poco internazionalizzata del nostro sistema economico”.
Con in mente questa strategia, Calenda fissa l’obbiettivo nazionale di portare la spesa in cooperazione internazionale “allo 0,5% del Pil, in linea con quella tedesca”. A livello europeo, al contempo, “dobbiamo immaginare che i fondi per la coesione interna vengano sostituiti sempre più da fondi che vadano a lavorare per la coesione esterna”. Questa, dice il titolare dello Sviluppo economico, deve essere “una linea precisa nel bilancio dell’Ue”, che deve garantire “alla Commissione la possibilità di intervenire su più anni, sapendo quante risorse ci sono a disposizione”.
Il ministro rivendica la proposta italiana del Migration compact, che “era più ambizioso di quanto è stato realizzato”. Vanno “benissimo i 4 miliardi del fondo di garanzia” per gli investimenti in Africa – dice aggiungendo uno scettico “vedremo” sulla previsione che l’effetto leva porti a 44 miliardi investiti – “ma non sono sufficienti se si pensa che solo l’accordo con la Turchia è costato la stessa cifra che stiamo dando a tutta l’Africa”.
Sulle risorse stanziate dal piano Ue interviene anche il commissario europeo per la Cooperazione internazionale, Neven Mimica, puntando più sul bicchiere mezzo pieno. L’esponente dell’esecutivo comunitario prevede addirittura che dai 44 miliardi previsti “si potrebbe arrivare al doppio se altri partner contribuissero”.
Qualche numero per stimolare altre adesioni agli investimenti in Africa è arrivato dalla relazione di Letizia Moratti. L’ex ministra dell’Istruzione e presidente della Fondazione E4Impact ha illustrato previsioni di crescita economica del 26,3% per i Paesi dell’Africa subsahariana tra il 2015 e il 2020. Il continente ha il 60% della superficie mondiale arabile non utilizzata, ha un tasso di imprenditorialità pari al 22%, che è “il più alto al mondo” evidenzia Moratti invocando “una risposta di sistema”. Bisogna mettere insieme Stati, Ong e società civile con le imprese, spiega, tanto le grandi quanto quelle piccole e medie. In questo ambito, aggiunge, vanno creati partenariati che coinvolgano anche le università e i centri di ricerca, possano contare su “finanza e assicurazione innovative”.
Sul versante delle imprese, la vicepresidente per l’Internazionalizzazione di Confindustria, Licia Mattioli, ha indicato una presenza già nutrita di investimenti in Africa, segnalando però come si possa fare ulteriormente meglio e assumendo a nome dell’organizzazione degli industriali l’impegno a “dare alle piccole e medie imprese la capacità di fare cooperazione” internazionale.
L’incontro dei settori profit e non profit, secondo Alberto Piatti, vice presidente esecutivo della divisione Impresa responsabile e sostenibile di Eni, segna un “salto di paradigma culturale notevolissimo in Europa su cosa sia cooperazione internazionale”. Se alle origini era intesa “quasi come un sacro lavacro per tutto quello che abbiamo portato via dall’Africa”, dice, oggi viene vista come “partenariato”, che “significa pari dignità nelle relazioni con i Paesi che ci ospitano”. La strada giusta è “solo fare sistema”, indica il manager, e dotarsi di “strumenti agili e veloci” per far sì che “i fondi che noi mettiamo in un Paese” possano fare da “leva” per lo sviluppo economico. In questo “il sistema italiano e quello europeo possono fare una grandissima differenza”, conclude.
Dello stesso avviso è Maria Cristina Papetti, capo della divisione Progetti sostenibili e condivisione delle pratiche di Enel, convinta che “oggi il ruolo della responsabilità sociale di impresa sia superato” e si debba “andare oltre”. Un’azienda che vuole essere sostenibile e stare sul mercato sul lungo periodo, sostiene, deve “integrare il proprio modello di business nella creazione di valore condiviso”. Una strategia che Enel persegue puntando sulla diffusione di “piccoli impianti, aprendo nuovi mercati per le rinnovabili”, e promuovendo “corsi di formazione per l’accesso alle nuove opportunità di lavoro”, spiega la dirigente illustrando un progetto per insegnare a giovani donne come installare e manutenere piccoli impianti fotovoltaici. Iniziativa che può rientrare nella finalità indicata dal direttore della Dg Devco della Commissione europea, Stefano Manservisi, ovvero di usare la cooperazione per “rendere la globalizzazione umana e sostenibile per tutti”.