“La peonia del Carso” di Alojz Rebula è un libro d’altri tempi, come l’autore, ultranovantenne, come il mondo che descrive, ora scomparso. Ma i temi di questo romanzo dolce e feroce sono senza tempo e restano di grande attualità. A nessun italiano è stato mai insegnato a scuola che noi fummo scrupolosi esecutori di epurazioni etniche, che nelle terre non italiane conquistate con la Prima guerra mondiale ci accanimmo nell’annientamento culturale della nazione slovena con persecuzioni, torture e anche eccidi. “Bonifica etnica” si chiamava ufficialmente. Nessun libro scolastico racconta questa parte oscura della nostra storia. Conoscerla ci avrebbe reso più consapevoli della brutalità di ogni nazionalismo e avrebbe reso anche meno inspiegabili le atrocità e le vendette che poi molti italiani subirono in quelle stesse terre con i massacri delle foibe. Ancora oggi il nostro Presidente della Repubblica, quando definisce la Prima Guerra Mondiale la quarta guerra dell’indipendenza nazionale, nega la realtà storica della nostra usurpazione di terre altrui e continua a tenere gli italiani lontani dalla verità dei fatti, dal riconoscimento dei loro torti, che sono l’unica via per una vera rappacificazione con il nostro passato e l’unico antidoto contro i nuovi fanatismi e negazionismi.
Il protagonista di questo romanzo è un agente segreto fascista di incerta convinzione politica che negli anni Trenta viene inviato nella Venezia Giulia per contribuire all’italianizzazione forzata delle popolazioni slovene e croate. Il fiorentino Amos Borsi è un poeta, un artista, finito in quell’incarico per raccomandazione di uno zio legionario di Fiume. Ebreo per parte di madre, sente di appartenere più alla nazione universale della cultura che a quella asfittica della patria. Arrivato a Trieste, capisce subito che gli uomini e le donne a cui il regime vuole imporre l’italianità, hanno una loro antica cultura, ricca di scrittori e artisti, e sono più alfabetizzati degli italiani.
Il nazionalista venuto per convertire finisce per essere convertito e si mette a studiare lo sloveno che invece ha l’incarico di cancellare dalle terre “redente”. Come sempre, la conoscenza e la consapevolezza passano per una donna. Non è un caso che la lingua sia parola femminile. È per parlare con Nataša che Amos frequenta la casa degli irredentisti sloveni. La fratellanza culturale che il mancato fascista instaura con il nemico gli suscitano le ire del gerarca locale, il cui nome dice tutto dei passati e presenti populismi. Urlato si chiama il trucido burocrate incaricato di “restituire nella forma italiana” i cognomi sloveni, con il supporto scientifico di qualche rintronato professore e altri cialtroni in camicia nera. Così Križnič diventa Crociani, perché križ significa croce, Lovšin diventa Cacciafigli, perché lov è caccia e šin è figlio, Podnesnik fa Sottonaso, perché pod sta per sotto e nes per naso e pazienza per il nik che non si sa come renderlo. Opponendosi a quell’assurdità, Borsi chiede a Urlato se gli piacerebbe che il suo nome venisse trasformato in Urlatovič, anzi in Rjovelovič, perché urlare in sloveno si dice rjoveti.
Ma qui Rebula non ne risparmia neppure ai suoi connazionali, perché molti fra i più ricchi e potenti scesero a patti con i nuovi padroni fascisti e poterono conservare il loro nome e il loro status sociale. E anche quel vitale nazionalismo che pure diventa l’ultimo appiglio per la sopravvivenza della slovenità, alla fine Rebula lo prende per le corna. All’eroe sloveno della vicenda mette in bocca queste parole: “A dirla proprio schietta: era arcistufo del sangue e della lingua! La nazionalità e i suoi corollari gli davano il voltastomaco! Quando si sarebbe finalmente approdati a un esperanto non solo linguistico, ma anche psicologico, capace di generare nell’uomo una nuova espressività universale? Quando l’umanità sarebbe stata affrancata dalla maledizione di Babele, e quando etnie e lingue, tradizioni e mentalità avrebbero cessato di frapporsi fra l’umanità e la sua sorte, lasciando l’uomo solo a confrontarsi col destino, il suo radioso vuoto?”
Frequentando i cospiratori sloveni, Borsi scopre che condivide con loro qualcosa di grande: la cultura classica che lei, non divide ma anzi affratella tutti i popoli europei nelle loro comuni radici. Ai suoi capi fanatici che lo accusano di tradimento risponde che per conquistare gli sloveni all’italianità non si dovrebbe usare la forza ma la cultura, quella che appartiene a tutti, in qualunque lingua si esprima. E qui Rebula tocca i temi oggi più che mai attuali di appartenenza e di nazione che sono all’origine e alla fine di ogni tentativo di unificazione europea. Impossibile unire cancellando identità, ugualmente impossibile unire differenze. O invece la ricetta è proprio questa: lasciare ad ognuno la lingua e la cultura che gli appartiene e spostare altrove l’appartenenza, non più nelle stantie mitologie nazionali, nelle riserve di caccia delle tutele linguistiche, ma in principi e in valori che l’autore stesso individua nel motto “Qui si parla solamente umano” che corregge e ridicolizza l’insegna affissa nei locali pubblici della Venezia Giulia durante il Ventennio: “Qui si parla solamente italiano”. Quell’umano che trova le sue radici nelle figure della cultura classica e che in italiano o in sloveno racconta la stessa storia, la ricerca di una via, di un senso. Il fascista mancato Borsi la trova fra le querce, i sommacchi, i carpini e i ciliegi selvatici del Carso, nei voli delle cesene e delle colombe, in quella città dall’italianità difforme che Slataper diceva tutta popolata di gente venuta da altrove, aliena anche ai suoi abitanti sloveni che a Lubiana chiamano con una punta di spregio “quelli del litorale”.
La scrittura di Rebula è asciutta e sobria anche quando la tragedia dilaga e con una pudica discrezione allude appena a quel che nessuna parola è capace di raccontare. La narrazione diventa cauta come il passo di un contrabbandiere sulle aspre sassaie del Carso, che sente l’agguato prepararsi nel folto dei boschi, sullo sfondo della città, laggiù in basso, incendiata dagli attentati e dalle fucilazioni.
Questo libro di Rebula, assieme a quelli di Boris Pahor, altro testimone della brutalità nazionalista italiana, arrivano tardi nelle nostre librerie e ancora non sono arrivati nelle nostre scuole. Ma siamo sempre in tempo a riconoscere le nostre colpe e le falsità che ci siamo raccontati anche in settant’anni di storia repubblicana. Dovremmo anzi partire proprio dalla storia e redigere assieme ai nostri vicini sloveni, austriaci e croati un manuale scolastico condiviso che spazzi via una volta per tutte la retorica dei nazionalismi, che racconti il punto di vista di ognuno e restituisca a queste terre il riconoscimento della loro anima multietnica, che è poi quella dell’Europa intera.