Roma – L’interesse dell’Unione europea per la web tax non è così genuino, perché “ci sono almeno tre Paesi che non vogliono neppure sedersi al tavolo: Irlanda, Olanda e Lussemburgo”. Se qualcosa ha iniziato a muoversi è solo perché “Francia e Italia hanno sbattuto i pugni sul tavolo”, ma l’impostazione che sembra emergere dalla Commissione Ue, imporre la tassa sulla base del fatturato, è destinata a essere un flop perché “qualsiasi imposta su un fatturato di zero è pari a zero”. Quindi, “il minimo sindacale che l’Ue debba fare è condurre la battaglia per imporre l’obbligo di stabile organizzazione” in ogni Stato membro in cui le aziende ‘digitali’ operano. È il ragionamento che Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera e coautore col professor Robert Leonardi del libro ‘The challenge of the digital economy – Markets, taxation and appropriate economic models’, consegna a Eunews in questa intervista.
Presidente, come procede il lavoro parlamentare sulla web tax contenuta nella Legge di bilancio?
Nel passaggio al Senato è stata rafforzata la parte connessa alla stabile organizzazione, che completa il lavoro di questi cinque anni di legislatura e ha l’impostazione originaria della web tax a cui io personalmente continuo a essere legato. Continuo a pensare che abbia senso fare la battaglia parlamentare, in Italia e negli altri Paesi dell’Unione, sulla necessità di accompagnare le cosiddette ‘over the top’ alla scelta della residenza fiscale nel Paese in cui fanno business. Quest’opzione volontaria è già in vigore con la mia norma approvata nella manovrina, e al Senato sono stati specificati alcuni passaggi che consentono all’amministrazione fiscale di dimostrare che la stabile organizzazione esiste anche quando alcune aziende del web, soprattutto le multinazionali, asseriscono il contrario. Poi c’è l’altra parte della norma, il 6% di imposta di cui si sta discutendo molto. Suscita perplessità perché è un’imposta sulle transazioni, le cui caratteristiche saranno disciplinate dai decreti di attuazione del ministero delle Finanze. Vedremo che dibattito verrà fatto alla Camera e decideremo con i gruppi parlamentari che correttivi porre.
Quindi c’è margine per dei correttivi?
Penso proprio di sì. Al momento è evidente che questa imposta la pagherebbero tutti, anche le imprese italiane, alle quali poi è consentita la possibilità di recuperarla attraverso il credito d’imposta, che però può essere richiesto solo dalle imprese che fanno utili. Poi, l’altro aspetto critico è che al momento non si tocca il commercio, che è il grande business. Si toccano i servizi e non è ancora chiaro se solo sul fronte business-to-business (scambi tra aziende, ndr) o anche business-to-consumer (scambi tra aziende e clienti finali, ndr). Questi aspetti devono essere chiariti.
L’iniziativa italiana ha ricevuto ieri un plauso dalla commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager, che però è convinta sia più funzionale un intervento internazionale.
Ho rispetto per la commissaria Vestager e per gli altri colleghi che ci stanno lavorando, come il ministro Le Maire in Francia. Però non possiamo permetterci di fare i convegnisti. La gente ci chiede soluzioni. Io ho passato 5 anni a reggere i conflitti che venivano alimentati dai teorici del ‘ci pensa l’Europa’. Ovviamente lo dicevano, poi però non ci pensava nessuno in Europa. Il lavoro eccellente fatto dall’Ocse, alla fine arriva agli stessi risultati a cui eravamo arrivati noi nel 2013, cioè la necessità di avere almeno le imposte indirette uguali in tutta Europa. Poi però, alla fine, le analisi, gli studi d’impatto e le simulazioni devono tradursi in norme, ed è noto che in Europa ci sono almeno tre Paesi che non vogliono sedersi al tavolo.
Quali?
L’Irlanda, l’Olanda e il Lussemburgo di Jean Claude Juncker, che si ritrova a fare il presidente della Commissione europea ed è un’altra delle personalità politiche che dice ‘ci pensa l’Europa’. Ma se ‘ci pensa l’Europa’ la Commissione deve essere conseguente. Invece c’è stata un’accelerazione su questi temi solo quando Francia e Italia hanno sbattuto i pugni sul tavolo, e a Tallinn si è approvata almeno una dichiarazione stringente. Detto questo, nonostante il lavoro fatto dal Parlamento italiano, le fughe in avanti fatte in parte anche da Germania e Francia, l’Europa non ha fatto passi in avanti. Ora si dice che li farà, ma se mentre l’Europa si decide a far qualcosa c’è qualcuno che poi si alza e dice ‘non basta l’Europa, serve il mondo’ si blocca tutto. Già sul fisco si fa fatica a mettere insieme due Paesi, poi si fa fatica a mettere insieme Paesi con la stessa moneta in Europa, si figuri se riusciamo a mettere insieme Stati uniti, Cina e Russia.
Non voglio fare l’avvocato della Commissione, ma Vestager ha anche posto un ultimatum: se non ci sarà un accordo sulla proposta Ocse entro primavera sarà presentata l’iniziativa Ue. La commissaria ha parlato di una web tax basata sul fatturato. Può funzionare?
No, ho dei dubbi che possa funzionare. Qualunque imposta si applichi a zero di fatturato fa zero: il 20% di zero fa zero. Il problema è che queste aziende non fatturano nei Paesi in cui fanno business. Il nodo è la stabile organizzazione. La mia tesi è che prima bisogna obbligarle ad avere una stabile organizzazione nel Paese in cui operano, esattamente come qualsiasi multinazionale tradizionale. Coca Cola e McDonald’s, per citare due simboli della globalizzazione, non è che sprizzino di gioia per il fatto di avere 27 partite Iva in Europa, ma ce le hanno. Non può funzionare che se vendi un prodotto materiale devi fatturare e se vendi un bene immateriale hai la libertà di fare quello che vuoi. Il tema su cui in Europa dobbiamo lavorare – dobbiamo spiegarlo a chiare lettere agli Stati uniti d’America – è che il minimo sindacale che l’Ue debba fare è condurre la battaglia per imporre l’obbligo di stabile organizzazione. Una volta fissato questo criterio, vogliamo tassare il fatturato? Parliamone. Io non ne sono convintissimo, penso abbia più senso avere la certezza che almeno paghino le imposte indirette. Io mi accontenterei che Amazon, Ebay, Airbnb, Uber, Facebook e gli altri pagassero almeno le imposte indirette. Loro evadono sia le imposte dirette che quelle indirette, e così è chiaro che non può funzionare. Poi vogliamo parlare di imposta sui flussi? Vogliamo parlare di imposta sulle transazioni? Parliamone. Magari in modo non così frettoloso e superficiale com’è stato fatto in questi giorni in Italia.
Oltre alla fuga dalle responsabilità fiscali, quello che la preoccupa delle multinazionali che operano in rete è il potere che hanno sulla gestione dei dati personali. Pensa a qualche intervento in particolare per porre un argine?
Io penso si debba assicurare la portabilità dei dati. È una battaglia che possiamo portare avanti anche con Vestager. Lei si è espressa su questo e dice cose che condivido da sempre. I dati devono essere di ognuno di noi che li genera, non di chi li gestisce. Vorrei riflettere seriamente sulla possibilità di una norma che consenta a ogni italiano di portarsi i propri dati dove vuole. Per quanto riguarda invece la tutela del dato, vorrei che si riflettesse seriamente sul fatto che la Repubblica non abbia ancora un cloud pubblico. I dati di ciascuno di noi relativi al rapporto con la giustizia, con la sanità, con l’amministrazione fiscale, oggi viaggiano nell’infosfera.
L’Ue prevede un cloud europeo, anche se l’idea è nata per condividere informazioni tra centri di ricerca. Può essere una porta aperta per la realizzazione di una ‘nuvola’ pubblica europea che assolva alle necessità cui lei fa riferimento?
È una cosa che non mi dispiacerebbe, ma è necessario che si muova qualcosa. Secondo me, se ogni Stato avesse un proprio cloud pubblico faremmo già qualcosa di utile. Poi, se ci fosse una opzione europea andrebbe bene comunque. L’importante è che sia lo Stato ad avere i dati sensibili di ogni cittadino.