Estratto dal romanzo di Fabio Ciriachi Una perfetta vicinanza (Coazinzola Press, 2017), di cui parlerà, presente l’autore, Lorenzo Robustelli alla Piola Libri, rue Franklin 66-68 Bruxelles, martedì 28 novembre alle 18,57.
“Il primo agosto, all’alba, confuso dalla luce di fuori e stordito dal sonno perso, torno dal pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni.
Aver trascorso tante ore fra quelle mura non dipende dai troppi pazienti succedutisi dal mio arrivo, verso le due del mattino. In realtà si erano scordati di me; mi avevano chiamato proprio mentre ero in bagno, e non sentendo risposta avevano deciso che me ne fossi andato. Escluso senza saperlo dalla lista dei pazienti, sono rimasto ad aspettare, quanto mai paziente, per l’intera notte. Infine, dopo aver misurato le facce e i dolori altrui, sempre sperando di sentir echeggiare il mio cognome, e sempre deluso perché non somigliavano mai a Distansi i cognomi chiamati, soltanto quando sono rimasto solo e ho visto i medici darsi il cambio e bighellonare per i corridoi, ho chiesto quando mi avrebbero visitato e allora s’è chiarito l’equivoco.
Chissà perché l’infermiera ha mostrato fastidio per il contrattempo, come se il mio essere andato in bagno poco prima della convocazione fosse una colpa. Quindi mi hanno visitato ma con sufficienza, e siccome non hanno rilevato nulla, né cercato a fondo nulla, limitando tutte le analisi a un ecg fatto con la mano sinistra, mi hanno dimesso come un corpo estraneo, un rompiscatole, un malato immaginario, e ora sono lì confuso dalla notte in bianco e non so come defilarmi dal lavoro (perché solo questo voglio) senza accumulare ulteriore ritardo sui tempi di consegna già molto stretti.
Può essere dipeso da Vanessa il mio malore? Poche ore dopo il nostro primo incontro, infatti, ho avvertito qualcosa di anomalo nella pressione, e poi nei battiti cardiaci, e ho prima provato a sedarmi con doppia camomilla, e solo quando ho visto che invece di stare meglio stavo peggio, senza svegliare Arlette, sono andato col taxi all’ospedale.
Come definirei l’incontro con Vanessa? Difficile rispondere. Tutto è ancora così confuso dalla stanchezza. Provo a stare sui fatti. Arrivo puntuale all’enoteca e mi siedo nella prima sala; semideserta, data l’ora. Lei non c’è. Poi, mentre la cameriera inizia ad apparecchiare la tavola, le dico di farlo per due perché aspetto una persona. E lì, con acume professionale, lei osserva che forse la persona da me attesa può essere quella che a sua volta aspetta una persona, nella seconda sala, e quanto abbia ragione lo verifico subito sulla soglia della seconda sala dove mi accompagna fino a indicarmi la ragazza seduta a un tavolo, curva a leggere.
Appena entro, Vanessa guarda verso di me, e a quel punto ci vediamo e riconosciamo, e mentre percorro gli interminabili dieci metri che ci separano, lei si alza e mi aspetta in piedi, e quando le sono di fronte si offre a un abbraccio che io non ricambio, e lascio che il suo corpo si avvicini e poi, deluso dalla mia immobilità, si fermi d’imbarazzo senza spingersi oltre un accenno di bacio sulle guance, quello, sì, ricambiato. Subito ci sediamo e scrutiamo, e diciamo entrambi qualcosa tanto per dire, giacché quel primo scambio di parole serve solo a dare suono alle voci. La prova, per me, è positiva, e forse lo è anche per lei. Parliamo per tutta la cena chissà di che cosa.
La seguo, calice in mano, fuori dell’enoteca dove fuma una sigaretta. Tornando al tavolo, lei davanti, valuto la grazia mobile del suo corpo, la magrezza leggera e proporzionata delle gambe capaci di passi stabili, quasi solenni malgrado gli alti sandali attorcigliati coi legacci alle caviglie. Il sorriso con cui accompagna tutti i suoi modi di porsi – un sorriso a tratti nascosto sotto una sorta di cauta attenzione – finisce per essere il centro del mio ricordarla. Di più non riesco a trattenere. Ai saluti, poi, l’incertezza delle labbra a incontrarsi non sa sostenere adeguatamente un goffo ripiegare verso il bacio sulle guance che ci scambiamo.
Ma cosa non mi torna, mentre confronto la persona che ho davanti con quella desunta dalle molte foto su facebook? Non riesco a far coincidere l’immagine della ragazza seduta di fronte a me col ritratto complessivo che mi sono fatto di lei nel corso dei quindici giorni di scambi scritti, di foto guardate e riguardate, di segnali interpretati.
Per essere preciso posso dire che chi mi sta di fronte è meno di quanto mi sono sentito autorizzato a immaginare nelle due settimane precedenti. Non lo considero un problema, mi basta vederla in questo modo: davanti a me c’è l’autrice. L’altra, quella conosciuta su facebook, è il personaggio. Quindi, mi dico, d’ora in poi devo sapere che m’incontrerò e confronterò con una dualità senza precedenti.
Il reale non assorbe e cancella il virtuale ma gli cammina accanto nel tentativo di dare vita a un diverso spessore di esperienza. Avrò relazione con una dualità. È certamente un punto di vista insolito, ma per la rifratta incertezza cui dà luogo non troppo dissimile da ogni altro nuovo incontro vissuto senza le anomalie del virtuale.
A un certo punto, con una velocità che non corrisponde al mio bisogno di averla ancora sotto gli occhi, Vanessa dice che è tardi, deve andare. Starà fuori Roma tre giorni, e saperlo mi rende difficile il congedo. Per questo, nel salutarci, non andiamo oltre quel goffo bacio sulle guance”.