A cura di Alexander Damiano Ricci – EuVisions
Accusata di essere troppo focalizzata sulle priorità economiche, negli ultimi anni l’Ue ha perso, a colpo di populismi nazionali, lo smalto dei tempi migliori.
A venticinque anni da Maastricht e a dieci dallo scoppio della crisi finanziaria e del debito sovrano non è affatto facile capire in che direzione stia procedendo il percorso di integrazione economica e politica dell’Unione europea.
In gergo tecnico accademico, le istituzioni comunitarie scontano un deficit di legittimità politica di output, ovvero: la garanzia di poter contare su un sostegno diffuso da parte di leadership e cittadinanza nazionali, legato – in teoria – alla capacità di soddisfare i bisogni economici e di welfare.
Dall’elezione di Juncker a Goteborg 2017
Eppure, nell’ottobre del 2014, sulla scorta della nomina a Presidente della Commissione europea, il conservatore Jean Claude Juncker aveva annunciato un quinquennato all’insegna del “sociale”.
Hanno effettivamente fatto seguito il piano di investimenti europeo – il cosiddetto “piano Juncker”, recentemente aumentato nella sua portata ed esteso fino al 2020; la garanzia giovani; la revisione della Direttiva sui lavoratori distaccati (“Posted workers directive”); infine, l’approvazione del Pilastro europeo dei diritti sociali (la proclamazione ufficiale del Pilastro avverrà settimana prossima, a Goteborg, in Svezia durante il Social Summit 2017).
Il problema, va detto, è che non tutto ha funzionato perfettamente: i risultati della garanzia giovani sono discutibili in alcuni Paesi (in Italia, per esempio); il piano Juncker potrà essere valutato soltanto alla fine del suo ciclo di vita; la revisione della Direttiva sui lavoratori distaccati sembra essere soprattutto un tentativo di arginare la retorica della destra nazionalista. Rimane il Pilastro dei diritti sociali europei: un’innovazione che fa ben sperare, certo, ma l’efficacia del quale, dipende dalla disponibilità degli attori istituzionali – e dei partner sociali – di farne, in futuro, un punto di riferimento comune nel dibattito pubblico.
Per questo motivo, l’integrazione di una capacità di azione sul piano “sociale” all’interno della governance economica dell’Ue, rimane ancora, nel “lontano” 2017, il nodo gordiano da sciogliere.
Quo vadis Europa?
Il tema è stato trattato anche venerdì 10 novembre a Milano, presso la Facoltà di scienze politiche, economiche e sociali dell’Università statale di Milano, nel corso della conferenza “Quo vadis Europa?: governance economica e convergenza sociale alla luce del discorso sullo Stato dell’Unione (Soteu, State of the Union) del Presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker”.
Box: Il discorso sullo Stato dell’Unione
Durante il Soteu, Juncker ha lanciato un piano ambizioso di riforme dell’Ue sintetizzando la sua visione per l’Unione del futuro. La visione di Juncker rappresenta uno scenario originale che ha tratto forza dall’elaborazione, nel corso dei 6 mesi precedenti al Soteu, del Libro bianco sul futuro dell’Europa.
Da un punto di vista di governance e di riforme economiche, la visione di Juncker prevede: l’istituzione di un Ministro dell’economia e delle finanze unico dell’Ue (da far combaciare con il ruolo di Commissario agli affari economici, da un lato, e con quello del Presidente dell’Eurogruppo, dall’altro); l’unificazione delle figure del Presidente della Commissione e del Consiglio; il completamento dell’Unione bancaria e l’estensione dell’Eurozona a quanti più Stati membri possibili.
Per quanto riguarda le politiche sociali, Juncker ha stabilito la necessità di approvare il Pilastro europeo dei diritti sociali entro il già citato Social Summit di Goteborg (obiettivo raggiunto, dunque) e di lavorare alla definizione di un’“Unione di standard sociali”. L’obiettivo? Sviluppare una visione condivisa, a livello europeo, di ciò che possa considerarsi “socialmente equo”. Infine, il Presidente ha anche sottolineato la necessità di istituire un’Autorità unica del lavoro, la quale, al pari dell’Autorità unica bancaria, dovrebbe avere il compito di vigilare sulle condizioni di lavoro nel Mercato unico.
Il tutto è stato racchiuso in una roadmap che prevede un appuntamento chiave a marzo 2019, in Romania, contestualmente alla Brexit e prima delle elezioni del Parlamento europeo. In quell’occasione l’Ue dovrebbe definitivamente dotarsi dei dispositivi giuridici e di policy menzionati.
Organizzata dal Gruppo politico dei Socialisti & Democratici (S&D) al Parlamento europeo e dall’osservatorio europeo, EuVisions, la discussione “Quo Vadis Europa” è partita dall’osservazione “critica” di Francesco Corti che, all’interno del Soteu, il “capitolo sociale” ha trovato poco spazio, se confrontato con le priorità di natura economica elencate da Juncker. Rimane legittimo chiedersi perché.
Secondo David Rinaldi (Docente presso l’Università Libera di Bruxelles e Senior Economic Policy Advisor presso la Fondazione europea dei progressisti, Feps) è tutto una questione di “paradigma”. A Bruxelles, lo sviluppo di policy è funzionale – se non del tutto, in buona parte – al concetto di “stabilità macroeconomica”.
Non è certo il concetto di stabilità in sé a essere un problema, quanto il fatto che, questa ultima, venga “interpretata, sempre e soltanto, attraverso le lenti della teoria economica classica”. Più precisamente: “attraverso i precetti del pensiero ordoliberale di origine tedesca”. In altri termini “variabili di tipo sociale non entrano mai in gioco nella definizione di cosa sia la stabilità”.
Il passaggio dall’inquadramento della stabilità in termini economici alla prioritizzazione di riforme strutturali è breve, spiega Rinaldi. Uno dei Paesi che lo sa bene proprio il nostro, l’Italia.
Sul punto è stato chiamato in causa Luigi Marattin (Professore presso il Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bologna e Consigliere economico della Presidenza del Consiglio), il quale ha sottolineato, però, che esiste una grande “fraintendimento” quando si parla di “riforme strutturali” e del loro obiettivo.
Queste ultime servono infatti a creare una sinergia “tra capitale e lavoro” al fine di stimolare la produttività del “sistema Paese”. In particolare, è importante sottolineare che le riforme strutturali devono focalizzarsi sul medio-lungo periodo. Insomma, non possono essere prese come uniche responsabili dello scarso focus da parte della politica europea e nazionale, sulla dimensione sociale.
Parlando di Italia, Marattin ha sottolineato che il problema principale del nostro Paese riguarda la stagnazione dei tassi di crescita della produttività dal 2006 in poi. Secondo l’ex-Consigliere economico di Matteo Renzi, per garantire il proseguimento del processo di integrazione europeo e, quindi (anche) un rinnovato focus sulla dimensione sociale, è fondamentale trovare una risposta al quesito: “È possibile spendere risorse estratte economicamente in un Paese membro dell’Ue per implementare politiche fiscali espansive in un’altra parte del Continente?”.
Una risposta positiva collettiva all’annoso interrogativo non può che dipendere, secondo Marattin, dallo sviluppo di un “sentimento di cittadinanza comune”. Il punto di riferimento qui, “sono le iniziative e i messaggi lanciati da Emmanuel Macron nel corso degli ultimi mesi”. In particolare, Marattin ha citato il discorso tenuto dal Presidente francese all’Università Sorbona di Parigi.
In altri termini, non si può far finta che l’Unione europea godi di un livello di integrazione tale da sfidare il tabù – o logica dominante – della “condivisione collettiva del rischio” (un altro modo per parlare di sviluppo di politiche sociali comuni). Insomma, dire Unione europea non equivale a dire Stati Uniti d’America, soprattutto quando si parla di qualità dell’integrazione.
L’analisi di Marattin è stata però criticata da Maurizio Ferrera (Professore ordinario di Scienza Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università di Milano): “In alcuni settori abbiamo standardizzato l’economia reale in maniera più marcata rispetto a quanto non avvenga negli Stati Uniti”. È quindi necessario “prendere atto del livello di integrazione già raggiunto” e “sfidare l’egemonia della teoria economica ordoliberale”. Secondo Ferrera, è legittimo provare a sfatare il tabù sopracitato.
Eppure non è così facile. Marattin ha sottolineato che, nell’area delle politiche fiscali – che in buona sostanza determinano l’effettiva realizzazione, nonché incidenza, della dimensione sociale nella governance dell’Ue – non c’è affatto una prospettiva/metodo federalista (a differenza che in aree come la politica commerciale esterna o). Di conseguenza, tutte le opzioni di riforma che sono attualmente sul tavolo, a livello europeo – a partire dall’assicurazione contro la disoccupazione europea, passando per lo sviluppo del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) – potranno essere realizzate, soltanto se verrà chiarito, a livello intergovernativo, il nodo politico di fondo.
Insomma, per rispondere all’interrogativo “Quo Vadis Europa?” e, più nel dettaglio, a come integrare politiche economiche e sociali, si torna a un nodo squisitamente politico, non tecnico: un punto su cui si sono trovati d’accordo tutti i partecipanti all’incontro.
Rimane da chiedersi chi debba sciogliere il nodo: le élite o gli elettorati nazionali? In altri termini: come si crea un terreno “politico” comune? È possibile?
Il professor Ferrera ha chiamato in causa un sondaggio condotto dal progetto di ricerca REScEU dell’Università di Milano. Secondo i dati di quest’ultimo, sembrerebbe esserci la disponibilità per la creazione di politiche sociali europee non solo nel Sud, ma anche nel Nord del Continente.
Viene il dubbio insomma – e questa è l’interpretazione conclusiva del professor Ferrera – che l’integrazione sia de facto più avanzata tra i cittadini di diversi Paesi membri dell’Ue. E che, quindi, si stia parlando, più che di altro, di nodi e tabù da sciogliere a livello di leadership.
Se così fosse, il proseguimento del processo di integrazione lungo un binario “più sociale” e “meno economico” apparirebbe, tutto sommato, una via percorribile. Se non “auspicabile”, come specificato dall’Eurodeputato, Luigi Morgano: “Serve una risposta rapida” da parte dei governi dell’Ue, rispetto alla direzione economica, politica e sociale che l’Ue deve prendere nei prossimi mesi.
In questo senso, come ribadito Rinaldi nelle conclusioni: “La proclamazione del Pilastro europeo dei diritti sociali dovrebbe rappresentare un punto di inizio e non un punto di arrivo”.