Roma – Colossi digitali come Facebook e Google pagano imposte ridicole a fronte degli incassi che hanno, e buona parte di quei ricavi proviene dallo sfruttamento del lavoro di giornalisti ed editori, che con i loro articoli riempiono di contenuti le piattaforme digitali senza ricevere nulla in cambio, se non poche briciole della raccolta pubblicitaria. Quindi, non solo bisogna far pagare le imposte ai big della rete, attraverso una web tax, ma bisognerebbe destinare al sostegno dell’editoria una parte dei proventi della nuova imposta. È l’idea lanciata dai giornalisti italiani in un incontro organizzato dall’Associazione stampa romana, la propaggine laziale del sindacato nazionale di categoria.
È proprio il segretario della Fnsi, Raffaele Lorusso, a puntare il dito contro quegli editori che “firmano accordi con Google e Facebook per pochi spiccioli”, perché “non affrontano il vero problema”. Secondo il rappresentante dei giornalisti, sono però il governo e il Parlamento a poter “intervenire sull’equità fiscale”, con misure che possono portare anche a un fondo di perequazione che dia ossigeno a un settore in difficoltà come quello dell’editoria.
Dall’esecutivo, il sottosegretario all’Economia Paolo Baretta assicura: “Il governo è cosciente che serve una strategia complessiva nell’approccio all’economia digitale”. E “se i social media possono essere veicoli di informazione”, aggiunge, “non può sfuggire a nessuno che la redditività dei giganti del web non può passare per un impoverimento dell’editoria”.
L’idea di usare la web tax come tassa di scopo a sostegno dell’informazione è accolta con freddezza dal viceministro dell’Economia, Luigi Casero, che però riconosce la necessità di riequilibrare la disparità tra aziende dell’economia materiale, che pagano dal 18% al 35% di imposte, e le altre che riescono a pagare appena lo 0,4%. “Cosa accadrà ai nostri quartieri”, si chiede inoltre Casero, se per effetto di questa concorrenza sleale molti negozi, fino a nove su dieci, saranno costretti a chiudere? Infine, allargando l’orizzonte, Casero ammonisce sulla necessità di tassare i “redditi apolidi”, quelli che non hanno nazionalità. Non bisogna farlo necessariamente in Italia, concede, “ma non è possibile che non vengano tassati” da nessuno.
Il più aperto verso le richieste dei giornalisti è Francesco Boccia, deputato Pd e presidente della commissione Bilancio. Sulla tassazione dell’economia digitale, il politico pugliese aveva già ingaggiato una battaglia nel 2012. Allora si andò a scontrare con un “muro impressionante”, alzato contro un presunto attacco alla libertà della rete, ricorda. I soli a non aver eretto barricate, riconosce, sono stati “il mondo della musica, che prima degli altri è morto e poi risorto” nella rivoluzione digitale, “e una parte del vostro settore”, quello dell’informazione.
Dal fallimento di quel tentativo a oggi, accusa ancora Boccia, “abbiamo lasciato sul terreno qualche decina di miliardi di euro” di mancato gettito fiscale. E se il governo italiano è in prima fila in Europa a chiedere la web tax, sono fuori strada tanto la proposta fatta ai partner dell’Ue – spostare la tassazione dai profitti al fatturato – quanto l’accenno di imposta digitale inserito nella Legge di bilancio.
La web tax “non la faremo con la manovra”, segnala il presidente della commissione Bilancio di Montecitorio, “daremo solo alcuni strumenti per fare più velocemente quello che fanno già oggi” gli organismi di controllo. Quanto alla discussione sulla tassa digitale vera e propria, anche in sede europea, “è vecchia, inutile e stantia”, accusa Boccia. A suo avviso, tassare il fatturato “sarebbe un favore” ai colossi del web, perché “non fatturano”. Di conseguenza, anche con un’imposta dell’8%, “otto per zero fa sempre zero” e quindi continuerebbero a non pagare, avverte il deputato.
“L’unica soluzione”, a suo parere, è “rendere obbligatoria la stabile organizzazione nel Paese in cui operi”. In questo modo, avendo una sede assoggettata all’imposizione fiscale in ogni paese in cui opera, anche un’azienda digitale sarebbe sottoposta allo stesso trattamento delle altre, almeno sulle imposte indirette. “Se non ci siamo arrivati è perché Juncker è timido”, accusa Boccia additando il presidente della Commissione europea, che sarebbe in imbarazzo perché prevedere una misura del genere penalizzerebbe paesi come “il Lussemburgo e l’Olanda”, dove diverse aziende scelgono di insediarsi proprio per le basse imposte che vengono loro richieste.
Una difesa dell’esecutivo comunitario arriva stranamente dal Movimento 5 stelle, che spiega la deputata Mirella Liuzzi, è stato tra gli oppositori della tassa quando fu proposta nel 2012, “perché non colpiva i grandi ma i consumatori e i piccoli venditori”. Adesso, sostiene l’esponente del movimento di Beppe Grillo, “la Commissione europea ha compreso” quali sono i rischi, e dunque, “attendiamo con molta curiosità” la proposta che Bruxelles presenterà sulla web tax nel 2018.
Qualunque sia la strada che si sceglierà di percorrere – il direttore generale della Fieg, Fabrizio Carotti, propone ad esempio che “un consumatore italiano debba pagare l’iva in Italia in base al principio di destinazione” – la reazione dei colossi del web si preannuncia agguerrita. Basti pensare a quanto riferisce Marco Delmastro, direttore del servizio economico statistico Agcom, a proposito della semplice raccolta di informazioni sul loro fatturato. Dal 2012, l’Autorità per le comunicazioni “monitora i ricavi afferenti al mercato italiano” realizzati da queste società, le quali si sono irritate non poco e hanno presentato ricorso al Tar del Lazio. Così, se i magistrati amministrativi daranno ragione ai colossi del web nella decisione che dovrebbe arrivare il prossimo anno, non solo sarà difficile tassare il fatturato che questi giganti fanno nel nostro Paese ma sarà addirittura impossibile conoscerlo.