Il brutto pasticcio del referendum catalano mostra in modo più chiaro che mai quanto siano pericolosi i nazionalismi e quanto rapidamente i diritti degli uni diventino soprusi per gli altri quando si prende come discrimine un’etnia, una lingua o una cultura e se ne fa uno strumento esclusivo e distintivo. Il motivo del contendere nel caso catalano sta in effetti tutto qui, nella discriminazione che alcune leggi di tutela sociale volute da Barcellona avrebbero creato nei confronti degli altri cittadini spagnoli e che Madrid non ha potuto accettare. Dalla giusta tutela della minoranza catalana la Catalogna è passata dunque all’ingiusta penalizzazione della maggioranza spagnola.
Il pretesto della protezione di una minoranza è arbitrario e diventa ingiusto quando questa protezione avviene a discapito della maggioranza, quando si dimentica che è nel comune denominatore che sta la convivenza, non nell’interminabile formulazione di differenze che alla fine disperde ogni comunità nell’individualismo. Il concetto di minoranza come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi è obsoleto e perde ogni senso in un’Europa senza frontiere. Proteggere le minoranze era legittimo, anzi sacrosanto quando incombeva su di loro la minaccia dell’assimilazione forzata e dell’annientamento da parte di Stati che si volevano omogenei e mal tolleravano la varietà culturale perché minava la compattezza della nazione e la credibilità del suo costrutto ideologico.
Nell’Europa comunitaria questa minaccia non esiste più e ogni cultura, ogni lingua dovrebbe essere lasciata libera di andare dove è capace di arrivare da sola, con la propria forza, con la propria vitalità anziché essere artificialmente protetta. Perché in questo caso non più di protezione si tratta ma di libertà vigilata. Le minoranze saranno veramente trattate con equità quando anche le maggioranze potranno avere accesso alle loro scuole e apprendere le loro lingue, quando avranno l’opportunità di diffondere la propria cultura con la forza della loro attrattiva e ovunque, non solo nella riserva indiana del proprio territorio. Se la cultura catalana è l’espressione di una società dinamica e capace di inventare il nuovo, come del resto ha dimostrato, non ha bisogno dell’indipendenza per prosperare e addirittura la sua influenza travalicherà i confini del suo territorio storico. La corsa contro il muro della carnevalesca indipendenza in cui si è scagliato il governo catalano rivela invece la piccineria di leader politici a cui preme soltanto di accrescere il proprio potere illudendo i cittadini che uno Stato indipendente dia loro maggiore libertà.
Una maggiore libertà non viene dalla moltiplicazione dei parlamenti ma dalla capacità di adattarsi al mondo che cambia, di cavalcare il cambiamento anziché subirlo. Tutte cose che ogni regione d’Europa oggi può liberamente fare travalicando le frontiere del proprio Stato e cooperando con le regioni vicine, come già si fa a cavallo di tante frontiere, prima fra tutte quella franco-tedesca dove la Lorena francese e la Saar tedesca oggi condividono scuola e amministrazione pubblica bilingue.
Nella brutta storia del referendum catalano non si è poi fatto mancare il patetico intervento di qualche disinformato commentatore italiano che anche in questo caso se l’è presa con l’Unione europea criticando il suo silenzio, senza sapere che Bruxelles non ha alcun titolo di esprimersi in faccende interne dei suoi Stati membri, anzi le è vietato dai trattati. Ancora più ottusa la valutazione di chi ha voluto vedere nel voto catalano uno smacco all’Unione europea. La deriva catalana dimostra invece esattamente il contrario: che sono gli Stati nazionali ad essere inadeguati alla modernità e che la soluzione alla loro debolezza è una federazione europea dove le regioni potranno assumere nuovi ruoli e competenze.