Bruxelles – La Commissione europea dichiara guerra ad Alibaba e ai 40 volponi, i giganti del web che non pagano le tasse che dovrebbero per l’assenza di un sistema di riscossione europeo. Il problema è squisitamente europeo: manca una legislazione comune e si procede per ordine sparso. L’esecutivo comunitario suggerisce quindi di ragionare alla creazione di quel regime fiscale mancate così da inquadrare giuridicamente in modo chiaro e definitivo i principali operatori attivi su internet e superare ciò che ancora ostacola la realizzazione del mercato unico. “Vogliamo che tutte le società attive nell’Ue possano competere in modo corretto, indipendentemente dal fatto che operino tramite cloud o da locali di mattoni”, sottolinea il commissario per gli Affari europei, Pierre Moscovici, presentando la comunicazione approvata dal collegio dei commissari. “L‘obiettivo di questa Commissione è sempre stato quello di garantire che le aziende pagano la loro quota equa di imposta in cui generano profitti”, e la comunicazione di oggi va letta in tale ottica.
Nella comunicazione riservata agli Stati membri l’esecutivo comunitario identifica categorie di business del tutto nuove, con tanto di nomi e cognomi. Ci sono rivenditori e grossisti digitali (Amazon, Zalando, Alibaba), social media che traggono profitto dagli annunci pubblicitari (Facebook, Xing, Qzone), piattaforme per l’erogazione di contenuti audiovisivi (Netflix, Spotify, iQiyi), piattaforme di economia collaborativa (Airbnb, Blablacar, Didi Chuxing, Uber). Si tratta di nuovi modelli di business, rileva la Commissione, “che pongono le questione relative a dove tassare e cosa tassare”. Questi nuovi “paradigmi”, come vengono definiti nel testo, “richiedono nuove risposte politiche”.
La politica fiscale però resta di esclusiva competenza nazionale. A Bruxelles si sostiene che “la risposta a un problema europeo dovrebbe essere europea”, invece di procedere a tante singole diverse normative nazionali che il commissario per i Servizi finanziari, Valdis Dombrovskis, non esita a definire “un patchwork” che, in quanto tale, è contrario al principio del mercato unico. E il mercato unico rimane la stella polare della Commissione. Il completamento del mercato unico digitale può valere fino a 415 miliardi di euro l’anno. Comprensibile, quindi, che l’Ue voglia rimuovere queste frammentazioni. Superare l’ostacolo delle competenze nazionali però sembra alla portata del team Juncker. I nuovi operatori che sfruttano la rete e le nuove tecnologie per fare affari, sono stati messi al bando in molti stati membri proprio perché considerati ‘irregolari’, e la questione delle tasse è stata una delle ragioni del fronte del no. Uber, accusata dai tassisti di concorrenza sleale, è forse il caso più esemplare.
La Commissione non impone niente, non può. Stimola il dibattito e si limita a suggerire alcune possibili soluzioni di breve periodo, perché “più si impiega a trovare una soluzione, maggiori saranno le perdite per mancata riscossione fiscale”. Ecco allora l’idea di ritenuti fiscali alla fonte per le transazioni digitali, imposte sui ricavi generati dalla fornitura di servizi digitali o attività pubblicitaria, sistema di equalizzazione sul fatturato delle società digitalizzate. Si suggerisce inoltre l’applicazione della Base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (Ccctb) agli operatori digitali, considerato come punto di partenza per garantire che anche chi deve i propri profitti alle nuove tecnologie sia allineato al trattamento riservato alle imprese tradizionali. In media, rileva la Commissione nella sua comunicazione, i modelli di business digitalizzati domestici sono soggetti ad un’aliquota fiscale effettiva di soli 8,5%, inferiore alla metà rispetto ai modelli commerciali tradizionali. In questo modo, invece, si potrebbero stabilire standard uguali per tutti.