Roma – Sulla ratifica del Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada entrato in vigore in via provvisoria, “non si torna indietro”. Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare non concede “alcuna possibilità” all’idea che il trattato venga bloccato “dalla mancata ratifica dell’ultimo dei Parlamenti regionali europei”. O almeno non subirà modifiche “sulle parti sostanziali”, confida l’esponente dell’organizzazione che fa capo a Confindustria. È convinto, evidentemente, che un’eventuale mancata ratifica si possa risolvere con una modifica marginale del testo in accordo con il Canada, che già ha accettato una volta di rimettere mano all’accordo per modificare il capitolo dell’arbitrato internazionale su richiesta dell’Ue.
Presidente Scordamaglia, Federalimentare è favorevole alla ratifica del Ceta. Quali opportunità vi attendete?
Parlerei con i numeri: il Ceta introduce una riduzione dei dazi doganali di circa il 95% sui prodotti esportati dall’Ue, e quindi dall’Italia, verso il Canada. È stato calcolato che, solo come minor costo per oneri di varia natura, sono oltre 42milioni di euro in meno da pagare. Un risparmio che, insieme con la semplificazione regolamentare, andrà a vantaggio soprattutto delle piccole e medie imprese italiane, quelle che hanno maggiori difficoltà a superare le elevate barriere d’ingresso. Quindi, ci aspettiamo aumentino in maniera significativa i 750 milioni di euro di esportazione agroalimentare italiana. Un’aspettativa che vale per l’Italia e complessivamente per l’Ue, dove finalmente si fa un accordo che premia gli interessi offensivi dell’agroalimentare europeo, che come Ue fa un surplus di 1,3 miliardi di euro. Quindi, il vantaggio è evidente.
Cosa comporta per le aziende il fatto che il Ceta sia entrato in vigore solo in maniera provvisoria?
Di fatto nulla. Però abbiamo perso un’occasione per dare dignità al ruolo dell’Europa come protagonista mondiale degli scambi commerciali. Di fronte a spinte protezionistiche a livello internazionale, l’Europa ha questa opportunità, ma se per la ratifica di un trattato come il Ceta – per noi molto importante, ma relativo sul piano globale – l’Ue non riesce neppure a ratificare da sola l’accordo, ma deve passare per oltre 30 Parlamenti, nazionali e regionali, secondo me è un’occasione persa. L’Unione europea ha scelto pilatescamente, ormai da tempo, di normare i dettagli e non armonizzare le cose serie. Detto questo, non vedo possibilità (che il Ceta venga bloccato, ndr), perché non si torna indietro dalla sostanza ratificata. Non penso ci sia alcuna possibilità, una volta entrato in vigore, di tornare indietro per la mancata ratifica da parte dell’ultimo dei Parlamenti regionali europei, almeno sulle parti sostanziali”.
Uno degli elementi rimasti in sospeso per l’attivazione provvisoria dell’accordo è la Corte internazionale per le dispute tra stati e investitori. Questo genera incertezza per le aziende?
Intanto vorrei spendere due parole sull’arbitrato internazionale, accusato di essere uno strumento che mina la sovranità legislativa degli Stati. È disinformazione. Si omette di dire che questo è uno strumento che l’Ue ha costantemente voluto in più di 2mila accordi fatti negli ultimi decenni, proprio per tutelare gli investitori europei – soprattutto in Paesi dove la normativa è in evoluzione, influenzata da interessi locali – dal rischio che, per effetto del cambiamento di una norma, come avvenuto in passato, gli investimenti fatti in quel Paese perdano valore o vengano nazionalizzati. Con il Ceta, poi, si è trovato il compromesso di avere dei componenti della Corte selezionati preventivamente dai governi. Quindi si è data ulteriore garanzia sulla democraticità del processo e dell’organismo. Detto questo, non è una cosa che incide sull’effetto immediato del Ceta. Le tante imprese italiane non hanno minimamente problemi ad andare avanti con un accordo che non preveda questo strumento. Sicuramente, anche quando ci sarà, non ci ricorrerà nessuna o quasi delle imprese dell’agroalimentare e nessuna delle dimensioni di quelle italiane.
Consumatori e produttori agricoli accusano il Ceta di aprire la porta a prodotti realizzati con sostanze vietate da noi, come la streptomicina, o il glifosato. Da un lato si teme per la salute, dall’altro per la concorrenza sui processi produttivi.
Bisogna prendere giustamente atto dell’attenzione con cui queste cose vengono guardate. È giusto dire che non debba essere firmato alcun accordo bilaterale che preveda un abbassamento degli standard igienico sanitari europei. Ma il Ceta è proprio questo. La Commissione non ha concesso nessuna modifica a questi standard. È falso, ad esempio, che potranno entrare carni agli ormoni, ogm, non autorizzate. Sulle carni con gli ormoni, l’Europa ha detto no da decenni, anche grazie all’Italia, e non cambierà mai. Non c’è nessuna variazione degli standard igienico sanitari dei prodotti che dovranno essere importati. Che poi, in determinati Paesi, la normativa attuale preveda l’utilizzo di strumenti che da noi non sono consentiti, si può discutere di tutto, ma il Ceta non cambia niente sui criteri dei prodotti importati.
Teme che il trattato apra un accesso facilitato per le aziende statunitensi al mercato europeo, passando per il Canada?
La nazionalità delle imprese che operano in Canada sono l’ultimo dei nostri problemi Sulla concorrenza, almeno nell’agroalimentare, il Canada esporta materie prime come il grano, di cui noi siamo carenti, mentre noi lo prendiamo e lo trasformiamo in pasta, creando valore aggiunto. Nessuna impresa, canadese, statunitense o di altra nazionalità che sia, potrà fare dal Canada una significativa concorrenza ai nostri produttori.
Però i produttori si lamentano. Coldiretti parla di “pirateria alimentare legalizzata”, perché nel Ceta sono protetti solo pochi prodotti tipici e si apre la porta alla concorrenza delle imitazioni canadesi.
Delle 171 Dop e Igp tutelate nell’accordo, 43 sono italiane. Nel nostro Paese ne esistono centinaia, quindi qualcuno potrebbe dire che 43 sono poche. Però, bisogna poi dire che solo 5, tra quelle 43 e tra tutte le Dop e Igp italiane, fanno il 95% delle esportazioni di prodotti tipici nazionali. Che non si tutelino quelle produzioni che fanno 5 grammi mai esportati – senza nulla togliere a prodotti come il lardo di colonnata o altri – è un falso problema. Quanto al livello di tutela, è chiaro che si tratti di un compromesso. Non è la migliore soluzione possibile per noi, ma non mi sembra poco aver ottenuto il diritto di esportare il Prosciutto di Parma con la sua denominazione. Fino a ieri non si poteva perché in Canada c’è un marchio depositato decenni fa e dovevamo esportare come Original Prosciutto. Ora potremo esportare con il marchio Prosciutto di Parma. Sarà associato al Parma Ham? Sì, e questo è il compromesso. Tuttavia, per quel prodotto come per le imitazioni della Fontina, del gorgonzola e degli altri, non sarà possibile usare alcuna evocazione di italianità. A noi non danneggia il fatto che esista il Parmesan fatto negli Usa o in Canada, ci danneggia che gli sia attribuita l’italianità.
Al contempo però si apre il nostro mercato al Parma Ham fatto in Canada.
Io credo che l’accordo sia un buon accordo. Poi, magari con il Giappone, faremo di meglio. Però, ad oggi, andremmo in processione di ringraziamento se si riuscisse a ottenere anche negli Stati uniti lo stesso livello di tutela che abbiamo ottenuto col Ceta.
Alcuni sindacati, in particolare Cgil, temono eventuali ricadute negative sull’occupazione. Condivide questa preoccupazione?
No. Credo che Coldiretti faccia una legittima e giusta valorizzazione della produzione italiana e l’industria del nostro paese ha il massimo dell’interesse a valorizzare la produzione agricola italiana. Detto questo, siamo importatori di materia prima e vogliamo esportare valore aggiunto – e ci stiamo avvicinando sempre più ai 50 miliardi di export agroalimentare, che corrispondono a 100mila posti di lavoro in più. Aumentare l’esportazione di prodotti ad alto valore aggiunto in Canada non diminuisce l’occupazione, la incrementa.