L’iconoclastia dell’ignoranza, scoppiata in America qualche settimana fa, ora dilaga da noi in forma ancor più becera facendo di vecchi monumenti apologeti di fascismo. Così ora qualcuno vuole cancellare la scritta “Mussolini Dux” dalla stele del Foro Italico credendo così di ripulire coscienza e storia italiana dalla macchia del fascismo. Per far bene, quella scritta sarebbe stato meglio non scriverla, o cancellarla quando si era ancora in tempo. Adesso c’è, è roba nostra, l’abbiamo scritta noi. Se davvero vogliamo sventare ogni nuovo rigurgito di fascismo, invece di cancellarla la dovremmo restaurare, perché sia ben leggibile, perché sia possibile spiegare alle nuove generazioni cosa ci fa lì, cosa significa e a cosa ci ha portati. Questo sarebbe un modo maturo e responsabile di combattere il risorgere di idee e comportamenti fascisti. E di fare una volta per tutte i conti con la nostra storia.
In realtà al Foro Italico come altrove, la vergogna non è l’obelisco inneggiante al Puzzone, non è la scritta, è la rovina, l’abbandono e la devastazione in cui versa tutto il complesso, tutto il quartiere, tutti gli edifici dell’Università di Roma. Intonaci cadenti, muri coperti di scritte, pavimentazione divelta, pezze d’asfalto sconnesse, pozzanghere come crateri, verde urbano non parliamone, parcheggio selvaggio, pali segnaletici arrugginiti, fermate d’autobus senza pensilina, neanche una riga per terra a indicarle. E su ogni cosa precedenza alle sacrosante automobili che corrono lì a ridosso della scalinata come su un’autostrada, ma del terzo mondo, senza corsie visibili, senza marciapiedi sicuri. E soprattutto senza cortesia, civismo, rispetto per gli altri, coscienza del bene comune. Il tutti contro tutti che ha reso Roma e l’Italia quel che è.
Chi poi volesse inoltrarsi nei viali antistanti la Farnesina e in quegli altri che la costeggiano, affonderà nell’erba alta fino alle ginocchia e calpesterà pattume ad ogni passo scoprendo qua e là un televisore rotto, anche una lavatrice, copertoni d’auto, il rottame di un motorino e tutt’attorno l’asfalto squarciato dalle radici dei pini marittimi , tanto che qui sì ci vuole il SUV per passare, sempre che ci sia un dove andare. Meglio tornare indietro e allora ammirare lo sconfinato parcheggio che infesta il piazzale della Farnesina. Gli architetti avevano progettato la spianata in leggera salita, per esaltare il magnifico palazzo modernista. Il parcheggio lo uccide, lo fa sembrare un centro commerciale e svilisce assieme al palazzo la funzione, quel che rappresenta, quel che c’è dentro. Se non avete capito bene, cercate su internet qualche fotografia del Quai d’Orsay a Parigi e fare il paragone. A girare fra le macchine così fitte che non ci si passa in mezzo, viene davvero da cercare la rastrelliera dei carrelli del supermercato. Un paio ce ne sono, pieni di sacchetti di plastica, abbandonati in quel che un tempo dovevano essere aiuole, ora disseminate da cumuli di stracci e cartoni, forse riparo notturno di barboni.
Eccolo il monumento dell’Italia moderna: il parcheggio, una spianata di macchine accatastate l’una contro l’altra, totem di privilegio e potenza, perché parafrasando un detto napoletano, parcheggiare a Roma è meglio che fottere, è status simbol, è una dichiarazione di potenza. Questo siamo diventati dopo gli sbruffoni e straccioni che eravamo ai tempi del patetico obelisco mussoliniano: un paese angusto e piccino, gente senza visione, senza un’idea di sé che non sia il proprio personale vantaggio contro quello degli altri. Un paese dedito alla polemica e alla frode come modo di vita, attorcigliato su se stesso, mai rappacificato con il suo passato e incapace di pensarsi un futuro.