Il negoziato per la Brexit non decolla. Il terzo round negoziale, conclusosi giovedì scorso, ha permesso qualche minimo progresso su temi importanti come il regime del confine irlandese, ma in sostanza si è concluso con le solite dichiarazioni di grande insoddisfazione da ambo le parti. Non può che essere così.
Gli interessi in gioco sono assolutamente divergenti, un accordo, in questo momento, non è possibile. E forse non lo sarà mai, con questi attori.
Dalla Gran Bretagna i negoziati sono condotti con un misto di senso democratico, orgoglio nazionale, impreparazione negoziale e disperazione oggettiva. Di fatto David Davis con le sue richieste di “flessibilità e immaginazione” sta chiedendo un aiuto a Bruxelles per evitare che si giunga a un “non accordo”, che metterebbe i Paese in enorme difficoltà, e lo lascerebbe di fatto isolato nel mondo, in particolare quello commerciale. Anche il premier giapponese Shinzo Abe lo ha detto chiaramente alla collega Theresa May durante la visita di questa settimana: siamo amici, vogliamo continuare a collaborare, me serve chiarezza legale. Una chiarezza che non ci sarebbe di certo se il 29 marzo 2019 il regno lasciasse l’Unione europea senza una serie di accordi sulla separazione e sui rapporti futuri.
Dall’altro lato del tavolo l’Unione europea è fermissima sulle sue posizioni, lo deve fare per salvare se stessa da eventuali nuove spinte all’abbandono e per proteggere comunque la propria immagine, all’interno e all’estero. Potrebbe anche essere una tecnica negoziale, per spingere in qualche modo il Regno Unito a tornare indietro sulla Brexit, quando si sarà reso conto, secondo l’Ue, della situazione estremamente difficile nella quale si troverà uno volta “da solo”.
Sono interessi divergenti, un vero dialogo è impossibile. Si paragona spesso questa separazione ad un divorzio tra coniugi, ma è estremamente riduttivo. Qui, alle volte, c’è un interesse reciproco a separarsi e un’intesa la si può trovare. Anche quando non c’è intesa c’è però un giudice che più o meno mette le cose a posto, anche se spesso con lunghi strascichi. Qui un giudice non c’è e pensare che una delle parti si sacrifichi per l’altra è davvero difficile.
Come abbiamo accennato prima la durezza del negoziatore Ue Michel Barnier potrebbe essere strumentale, per un (confuso) tentativo di bloccare la Brexit in questa maniera (mentre altre ce ne sarebbero, come scrivemmo tempo fa) ma proprio per tentare questa strada è necessario un negoziato duro senza sconti.
Insomma, al momento la situazione è quella, detta volgarmente, del cane che si morde la coda, nella quale i negoziatori non trovano una via d’uscita. Così, al Consiglio europeo di ottobre, quello che dovrà decidere se sono stati fatti progressi decisivi sui tre primi temi sul tappeto (Irlanda, aspetti finanziari e diritti dei cittadini) non si potrà che ammettere che no, i passi avanti non ci sono, che il negoziato, sostanzialmente, è fermo.
Serve un’idea, perché il muro contro muro non è utile a nessuno dei due negoziatori.
E sicuramente all’Europa non serve una Gran Bretagna alla deriva.