Coltivo un vizio sordido, dal quale non riesco a trattenermi e che d’estate viene fuori più forte che mai. Tenuto pietosamente nascosto dai familiari che, seppur con fastidio, lo sopportano perché sanno che rivelarlo sarebbe peggio. I figli si voltano dall’altra parte quando mi ci lascio andare, mia moglie abbassa lo sguardo impotente e piena di vergogna. Ormai non cerco neppure più di contenerlo. Mi ci lascio andare senza ritegno, me ne compiaccio, mi ci crogiolo. Credevo di essere l’unico ad esserne afflitto e non ne parlavo con nessuno, neanche con il mio psicanalista. Ma ieri sera chiacchierando al telefono con un amico, ho scoperto che anche lui ne è succube. E a suo dire, senza saperlo, siamo schiere a praticarlo.
Sì, ora mi sento di confessarlo. Sono uno di quelli che insultano la voce registrata dei caselli autostradali. “Prego inserire la tessera… Arrivederci e grazie!” dice lei ridente mentre la sbarra si alza. Quel che le dico io non è riproducibile, neanche vagamente raccontabile. E per di più senza motivo, senza nessuna ragione plausibile. Ma la eco dei miei insulti rimbomba sotto le pensiline, sovrasta brevemente anche il rombo dei motori. Una mitragliata delle più truci volgarità che farebbero impallidire i peggiori bestemmiatori, un fuoco d’artificio di oscenità dove machismo, razzismo, sessismo e ogni peggior ismo si intrecciano indissolubilmente fra italiano, dialetto e altre svariate lingue con accompagnamento di lauti ed eloquenti gesti. Ma confessato il vizio bisogna cercare anche di capire il perché.
L’amico al telefono non sapeva dire. Perfino lui, persona sensibile, ci dà dentro senza ritegno a interpellare madri e sorelle della signora del casello. E mariti cornuti e parenti di dubbia reputazione e sordide pratiche sessuali e certi altri innominabili vizi estremi. Una parziale giustificazione potrebbe essere il caldo. Abbassare il finestrino e trovarsi separati dall’aria condizionata per dover pagare il biglietto non può che infastidire il più paziente degli autisti. Ma io impreco anche d’inverno. Una plausibile spiegazione di tanta aggressività è che la signora non batte ciglio, se le lascia dire tutte, anzi sembra volerne ancora. Mai che si risenta, mai che risponda per le rime, mai che vedendomi arrivare cambi tono di voce ricordando quelle che le ho detto la volta precedente. No, lei sempre tutta fresca e gioiosa. Come se fra noi non fosse successo niente. Forse anche questo attizza l’improperio. Non essere riconosciuti, anzi, peggio: sapere che dice a tutti la stessa cosa o sospettare che invece agli altri dica di più, che si lasci andare ad ammiccamenti, che tratti solo noi in modo così spicciativo. No, non ci sarà mai intimità fra noi, nessuna storia è possibile con la signora del casello. Allora tanto vale insultarla. Comunque sappiamo che resteremo impuniti.
Viene però da chiedersi perché solo in Italia i caselli parlano. E perché sempre con voce femminile. Non è che il machismo qui è strutturale? Donne, motori… A noi non resta che recitare la nostra inesorabile parte. Ma in questo mondo dove anche gli ascensori parlano, è troppo chiedere che si possa scegliere la voce che vogliamo sentire al casello? Come nei navigatori: suadente, perentoria, timida, dominatrice, accento tedesco, dialetto bergamasco… E se addirittura fosse una voce maschile a intimarci di inserire prima il biglietto poi la tessera? Un vocione al testosterone puro, di quelli che solo a sentirla si vede un pomo d’Adamo grosso così. Credo che me ne starei zitto e buono. Anzi saluterei giovialmente il simpatico ragazzone: “Arrivederci alla prossima! Sempre in gamba, bella gioventù!”.
Sì, nessun ritegno, vigliacco fino in fondo…