Bruxelles – I sostenitori del ‘leave’ hanno salutato l’esito del referendum del 23 giugno 2016, quello che ha decretato la Brexit, come il giorno in cui il Regno Unito riconquista la propria indipendenza. Il settore del nucleare civile sembra però dimostrare il contrario. L’Associazione dell’industria nucleare (Nia), l’organizzazione che rappresenta oltre 260 imprese britanniche attive nel settore, già a maggio con ha lanciato l’allarme sulle ricadute oltre Manica a seguito dell’esito referendario e, soprattutto, le sue conseguenze. Si rischia di “finire nel baratro” per l’automatico abbandono britannico dell’Euratom, la comunità europea dell’energia atomica, si mette nero su bianco in una valutazione d’impatto della Brexit.
Un avvertimento passato in secondo piano, dato che al momento, complici anche le priorità date dall’Ue in questa fase negoziale per stabilire le modalità di uscita da Londra dal club a dodici stelle, le priorità a livello politico sono altre. Regolamento degli obblighi finanziari, tutela dei diritti dei cittadini, questione delle frontiere con particolare attenzione a quella con l’Irlanda. La questione del nucleare non rientra nei primi punti in agenda, ma il mondo delle imprese britanniche sta chiedendo impegni precisi al governo di Theresa May.
I numeri del nucleare civile, ecco cosa rischia Londra
L’industria del nucleare genera un quinto dell’energia elettrica utilizzata nel Regno Unito, offre lavoro diretto a circa 65mila persone, ed evita l’emissione di 49 milioni di tonnellate di CO2 l’anno, l’equivalente di quanto prodotto dal 78% delle auto in circolazione su strade e autostrade del Regno Unito. E’ solo la premessa, che serve a ricordare il valore strategico della filiera per i britannici e a suggerire come probabilmente i britannici optando per lasciare l’Ue abbiamo commesso un clamoroso autogol.
L’Autorità per l’energia atomica del Regno grazie alla partecipazione all’Euratom riceve ogni anno 50 milioni di Sterline per la partecipazione al programma di fusione Jet (Joint Research Torus), garantendo 500 posti di lavoro solo in questo ambito. Gli attuali contratti hanno validità fino al 2018, ma ci si attendeva un’estensione almeno fino al 2020. La Brexit mette quindi nell’incertezza settore e suoi impiegati diretti.
Il programma di ricerca e sviluppo per la fissione dell’atomo, del valore di circa 60 milioni di euro l’anno, finanzia non solo la ricerca sulla fissione, ma pure la sicurezza radiologica, la gestione delle scorie nucleari e il loro smaltimento. Si tratta di programmi e sottoprogrammi che oltre dare accesso al Regno Unito a fondi, permettono accesso alle infrastrutture di ricerca e alle capacità non disponibili nel Regno Unito, nonché alla significativa leva finanziaria degli investimenti britannici. Ad esempio, i finanziamenti di fissione dell’Unione europea per le organizzazioni britanniche, nell’ordine di 10 milioni di sterline, attivano investimenti “significativi” per l’industria, i laboratori nazionali e le università.
Altro che indipendenza, Londra rischia lo shock
A livello più generale, ricorda la Nia, in qualità di “partecipante leader” nei gruppi di lavoro Euratom e ai progetti di ricerca finanziati dall’Ue, “il Regno Unito è stato in grado di influenzare e modellare l’agenda dell’Unione europea per la ricerca e sviluppo nel settore a sostegno degli interessi britannici”. Insomma, i britannici si erano garantiti una posizione di forza, ma adesso in nome dell’indipendenza dovranno ricominciare tutto daccapo. Per davvero.
Il Regno Unito, prima di dire addio all’Ue, aveva scelto di dire addio al carbone e al nucleare di vecchia generazione. A meno di ripensamenti tutte le centrali a carbone dovranno essere chiuse entro il 2025, mentre tutti i reattori nucleari attualmente esistenti e funzionanti dovranno cessare ogni attività al più tardi nel 2030. Uscire dal mercato unico dall’energia così come dalla comunità dell’energia atomica rappresenta dunque un problema, per un Paese che avrà bisogno di nuove fonti energetiche per sostituire quelle che era stato deciso di eliminare. Si rischia quindi “il baratro” (‘cliff-edge’, come scritto in inglese nel documento) quale conseguenza dell’uscita dall’industria comune dell’energia atomica, che è soprattutto energetico e non solo.
Il nucleare civile riguarda anche il campo medico per diagnostica e applicazione terapeutiche. Qualcuno in Regno Unito rischia di restare al buio e addirittura senza assistenza sanitaria. Uscendo dal mercato unico il commercio di attrezzature per ospedali subirà contraccolpi. L’Associazione dell’industria per il nucleare chiede al governo di May di fare di tutto per evitarlo. Ma non sarà facile.
Problema giuridico, sul nucleare comune decide la Corte Ue
Il nodo del nucleare è certamente politico, ma anche giuridico. Theresa May ha detto di voler uscire anche dall’Euratom, ma non era necessario specificarlo. L’articolo 106 bis del trattato Euratom stabilisce che l’articolo 50 del trattato sul funzionamento dell’Ue (quello che prevede di recedere dall’Ue), si applica anche al trattato Euratom. Il Regno Unito dunque è fuori automaticamente dalla comunità del nucleare per usi civili e pacifici. Rientrarvi non sembra essere possibile, perché il mondo Euratom ricade sotto la giurisdizione della Corte di giustizia dell’Ue, che Londra non intende riconoscere per qualunque tipo di controversia. Rinegoziare l’ingresso nella comunità impone accettare l’organismo di giustizia di Lussemburgo.
La guerra delle scorie
C’è un problema invece tutto europeo riguardante le scorie nucleari. Il trattato Euratom stabilisce cooperazione anche nel trattamento e nello smaltimento dei rifiuti atomici, e il più grande sito di stoccaggio al mondo di scarti nucleari civili si trova a Sellafield, nella contea di Cumbria, Inghilterra nord-occidentali, al confine con la Scozia. A Sellafield sono stoccate 126 tonnellate di plutonio ‘scartato’, in gran parte dagli Stati membri. In nome della convivenza comunitaria il Regno Unito si era impegnato a farsi carico delle scorie radioattive di Francia, Germania, Paesi Bassi e Svezia, e adesso oltre Manica minacciano di rispedirle al mittente. In base agli accordi, Londra ha diritto a compensazioni per i costi per il trattamento e lo stoccaggio. Francia, Germania, Paesi Bassi e Svezia in sostanza pagano il Regno Unito per prendersi le scorie. Che con la Brexit non potranno essere più vendute. Londra perde così anche il business dello smaltimento dei rifiuti atomici. Se oltretutto dovessero sorgere controversie non è chiaro chi dovrebbe pronunciarsi, dato che Londra la Corte Ue proprio non la vuole. Nel dubbio, meglio rimandare indietro i rifiuti pericolosi.