di Andrea Cofelice*
Negli ultimi anni, il tema della governance delle migrazioni si è imposto tra le priorità dell’agenda del dibattito pubblico e politico. L’aumento della complessità e dell’ordine di grandezza degli spostamenti di popolazione (nonché della contestuale perdita di vite umane) ha imposto interrogativi sull’adeguatezza degli strumenti nazionali e internazionali preposti a gestire le sfide legate a un fenomeno che, ormai da tempo, ha assunto caratteri strutturali. In risposta a tali sfide, a livello globale è possibile intravedere tendenze e sviluppi relativamente nuovi che, sebbene non ancora consolidati (e per questo aperti ad ogni possibile esito), rappresentano i primi tentativi di dare forma e contenuto a un futuro regime internazionale delle migrazioni. Tali sviluppi riguardano sia il piano normativo sia quello istituzionale.
Sul piano normativo, l’obiettivo primario al momento sembra quello di ampliare i regimi giuridici esistenti, affrontando carenze relative allo status e alla tutela di specifiche categorie di persone coinvolte nei movimenti migratori. Un ambito in cui gli sviluppi appaiono particolarmente degni di nota riguarda lo status dei cosiddetti “rifugiati ambientali”. La riflessione in materia è stata avviata da una coalizione di attori di società civile, guidata dal Centro Internazionale di Diritto Comparato dell’Ambiente dell’Università di Limoges, che tra il 2005 ed il 2013 ha elaborato un progetto di Convenzione relativa allo statuto internazionale dei rifugiati ambientali. La Convenzione propone il riconoscimento di uno status giuridico specifico per le vittime (potenziali o effettive) dei cambiamenti climatici e delle catastrofi naturali, ambientali e tecnologiche, e, senza creare nuovi diritti o obblighi aggiuntivi per gli stati, intende adattare i meccanismi esistenti di tutela dei diritti umani alla condizione specifica dei rifugiati e delle persone sfollate per cause ambientali.
Il tema della protezione dei rifugiati ambientali sta entrando (non senza fatica) nell’agenda di lavoro delle organizzazioni internazionali. Nel maggio 2017, si è svolta la prima riunione di una specifica “task force”, istituita nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico su proposta della COP 21 di Parigi, con il mandato di “elaborare raccomandazioni per approcci integrati in grado di prevenire, ridurre al minimo e contrastare lo sradicamento forzato collegato agli effetti avversi del cambiamento climatico”. Quasi in contemporanea, il Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, con Risoluzione A/HRC/35/20, ha deciso di incorporare per la prima volta nel proprio programma di lavoro il tema relativo a “diritti umani, cambiamenti climatici, migranti e persone sfollate attraverso confini internazionali”.
Per quel che riguarda il piano istituzionale, è possibile osservare due tendenze. La prima riguarda la preminenza assunta dai processi di “regionalizzazione” della governance delle migrazioni. Le recenti azioni intraprese dall’UE, nonostante evidenti limiti di coerenza e progettualità, rappresentano ad oggi l’esempio più avanzato di tale tendenza. Tali sforzi, tuttavia, non sono isolati: altre organizzazioni regionali stanno attivando simili processi politici.
Uno dei sistemi più articolati è quello dell’Unione Africana (caso particolarmente rilevante per l’UE), incentrato prevalentemente sulla tutela dei richiedenti protezione internazionale. Tale sistema si compone di due convenzioni giuridiche (la Convenzione che regola gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, del 1969, e la Convenzione per la protezione e l’assistenza degli sfollati interni, del 2009), nonché di una rete di istituzioni, tra cui si segnala il Relatore speciale su rifugiati, richiedenti asilo, migranti e sfollati interni in Africa, istituito nel 2004 dalla Commissione Africana sui diritti umani e dei popoli. Al contrario, gli strumenti preposti a regolamentare gli spostamenti dei lavoratori migranti (la Cornice politica sulla migrazione per l’Africa e la Posizione comune africana su migrazione e sviluppo, entrambi del 2006) non sono giuridicamente vincolanti, circostanza che rende problematica la loro applicazione.
Più promettenti appaiono le politiche promosse dalle comunità economiche regionali africane. In particolare, il sistema sviluppato dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale[1] (ECOWAS) può essere giudicato nel complesso come il più ampio e coerente del continente. Il sistema poggia su due pilastri: il Protocollo sulla libera circolazione delle persone (1979), a cui hanno fatto seguito l’abolizione dei visti e l’introduzione di un passaporto unico per i cittadini della Comunità; la strategia Approccio comune sulla migrazione (2008), che integra il precedente Protocollo disciplinando i diritti di migranti e rifugiati, affrontando il tema delle migrazioni irregolari e del traffico di esseri umani, e istituendo un fondo regionale per finanziarie la cooperazione trans-frontaliera in materia di migrazione.
Bisogna precisare che tali esempi riguardano per lo più la gestione degli spostamenti di popolazione che avvengono all’interno delle organizzazioni regionali, e che spesso fanno parte di un’agenda più ampia di integrazione, che si pone l’obiettivo ultimo di istituire un mercato comune basato sulla libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali. In relazione al fenomeno dei flussi migratori tra diverse regioni, è possibile invece osservare lo sviluppo di una seconda tendenza, che consiste nel dialogo e nella cooperazione inter-regionale.
A guidare tale sviluppo attualmente è soprattutto l’UE che, nell’ambito dei principi sanciti dall’Approccio globale in materia di migrazione e mobilità, definiti dalla Commissione nel 2011, ha sviluppato specifiche forme di cooperazione con le organizzazioni regionali e sub-regionali di Africa e America Latina. La cooperazione tra l’UE e l’Unione Africana è regolata dal Partenariato strategico UE-Africa su migrazione, mobilità e occupazione, integrato da iniziative sub-regionali, quali il processo di Rabat (per l’Africa occidentale) ed il processo di Khartoum (per l’Africa orientale). Una simile struttura multi-livello è adottata anche in relazione al continente latino-americano: nel quadro del più ampio Dialogo strutturato UE-America Latina e Caraibi sulla migrazione, sono in fase di definizione accordi tra l’UE e le diverse organizzazioni sub-regionali del continente (come la Cooperazione UE-America centrale in materia di migrazione). Esiste, infine, anche un dialogo in tema di migrazioni tra l’UE e i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico), incentrato sul rafforzamento dell’attuazione dell’art. 13 dell’Accordo di Cotonou.
Per quanto rilevanti, le iniziative regionali e inter-regionali non cancellano la necessità di adottare strumenti e politiche globali che stabiliscano meccanismi di gestione delle migrazioni e standard generali minimi di protezione per richiedenti asilo, rifugiati e sfollati. Tuttavia, esse possono costituire un passo in avanti decisivo verso la loro adozione, emergendo come un livello di governance intermedio e un’opzione strategica in grado di stimolare e consolidare forme di cooperazione tra attori statali, non-statali e organismi internazionali. L’auspicio è che le linee di tendenza qui individuate possano infine trovare piena e organica sistematizzazione nell’ambito del negoziato in corso alle Nazioni Unite sui Global Compact relativi a migrazioni e rifugiati, al fine di garantire al fenomeno migratorio, al pari di altri temi globali ad esso collegato, un regime normativo e istituzionale coerente a livello internazionale.
*Andrea Cofelice è ricercatore del Centro Studi sul Federalismo
Pubblicato sul sito del Centro Studi sul Federalismo il 26 luglio 2017.
Note
[1] Istituita nel 1975, è attualmente composta da 15 Stati membri: Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo.