di Enzo Valentini e Mauro Gallegati
La crisi economica non è finita. È strutturale, e come tale abbisogna di interventi pubblici appropriati per essere superata. Esiste ormai un filone di ricerca che evidenzia come il “blocco” sia costituito dall’espulsione di lavoratori dai settori che negli ultimi decenni hanno visto enormi aumenti di produttività “reale” (cioè, servono sempre meno persone per produrre la stessa quantità di beni). Questi settori possono essere identificati nella manifattura a basso valore aggiunto; i settori che dovrebbero assorbire i lavoratori espulsi sarebbero invece quelli dei servizi ad alto valore aggiunto, che pagano salari più alti e sostengono la domanda aggregata.
Ma c’è qualche dato che conferma che la “crisi non è finita”? In relazione alla nostra interpretazione (fondamentalmente legata all’andamento della domanda aggregata e quindi alla somma di consumi e investimenti), sembrerebbe di sì, almeno per alcuni paesi. Fatto 100 il valore reale della domanda interna nel 2007, il dato più recente dell’Eurostat è pari a 68 per la Grecia, 84 per la Spagna, 86 per il Portogallo, 88 per l’Italia, 96 per l’Olanda, 97 per UK. Solo alcuni paesi mostrano un dato superiore a 100: Francia 101, Germania 105, Svezia 107, Norvegia 111. È molto interessante notare che questi ultimi paesi sono quelli che redistribuiscono di più, e anche quelli in cui un occupato lavora in media meno ore a settimana. Ad esempio, tale valore nel 2015 è pari a 42 ore in Grecia, 37 in Italia, 35 in Germania, 34 in Norvegia.
Torniamo alla domanda di partenza: chi sta pagando la crisi? Cerchiamo di capirlo guardando alla dinamica della distribuzione del reddito. In Italia, nel 2008, il 10% più ricco della popolazione si accaparrava il 14.8% del reddito; tale valore è cresciuto fino al 15.1% nel 2015. Al contrario, la quota posseduta dal 20% più povero è passata dal 4.8% al 4.6%. Questa tendenza è generalizzata, soprattutto nei paesi maggiormente in crisi: in Grecia la quota di reddito dei più ricchi passa dal 15.1% al 15.4%, quella dei più poveri dal 4.5% al 4.3%. Spagna: dal 15.4% al 15.8% la prima, dal 4.6% al 4.2% la seconda.
Nei paesi “non” o “meno” in crisi la dinamica è meno evidente, in alcuni casi inversa, e comunque con meno disuguaglianze in partenza: in Germania il 10% più ricco passa dal 14.3% al 14.6%, il 20% più povero dal 5.1% al 5%. In Francia la “fetta” dei ricchi passa dal 14.1% al 13.9%, quella dei poveri resta stabile al 5.3%. In UK il 10% più ricco passa dal 14.8% del reddito al 14.9%, mentre il 20% più povero passa dal 4.6% al 4.9%. Infine, in Norvegia i ricchi mantengono invariata la propria quota (13.6%) e i poveri passano dal 6.1% al 6%.
È noto come una eccessiva disuguaglianza penalizzi la crescita del reddito a causa della maggior propensione al consumo dei “poveri”. E ciò aggrava la crisi. Insomma: i poveri han pagato la crisi più dei ricchi.
Le politiche di austerity cronicizzano il problema. A fianco di investimenti pubblici (istruzione, formazione, R&S, spesa pubblica diretta in servizi avanzati) che facilitino la transizione verso i nuovi settori, c’è anche bisogno di un forte intervento di redistribuzione della ricchezza prodotta grazie agli aumenti di produttività: entrambe le politiche (investimenti, redistribuzione) possono concorrere a sostenere la domanda aggregata nel breve periodo, ma anche in prospettiva.
Se le persone non lavorano e/o i guadagni derivanti dalla produttività non vengono redistribuiti, le famiglie non hanno soldi per consumare, la domanda aggregata crolla o ristagna, la crisi non si supera.
In conclusione, una sottolineatura di carattere politico/istituzionale: le politiche di cui parliamo sono politiche di spesa pubblica che possono essere effettuate proficuamente solo a livello europeo. Nel caso della redistribuzione i motivi appaiono ovvi (la redistribuzione di ricchezza non può non essere anche “dai tedeschi ai greci”), ma anche nel caso degli investimenti pubblici nei settori avanzati (si pensi, ad esempio, al ruolo che potrebbe giocare l’ESA). Parliamo della seconda gamba da affiancare alla politica monetaria: abbiamo bisogno di mettere insieme le forze e coordinare anche le politiche fiscali con un vero e proprio bilancio europeo e relativi programmi di investimenti e redistribuzione della ricchezza, anche in termini di forme di basic income, visto che gli aumenti di produttività rendono non ancora superabile ma sicuramente sempre meno necessario il lavoro umano. A tal proposito, come già detto, nelle economie che “vanno bene” un occupato lavora in media meno ore rispetto alle economie che “vanno male”, e nelle prime c’è maggior redistribuzione del reddito che nelle seconde.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 27 luglio 2017.