C’è voluta qualche lettera di protesta e qualche rimostranza sulla rete perché alla fine i giornali italiani si mettessero a scrivere correttamente il nome della capitale estone, Tallinn e non Tallin, con tutte le enne che ci vogliono. Per i titolisti e i giornalisti italici, se si poteva risparmiare una enne, perché no? Tanto si capisce lo stesso, avranno detto i capi redazione. Nessuno ha pensato che risparmiare la enne di Tallinn era come risparmiare la enne di Washingto, o la kappa di New Yor o la o di Sarajev.
Il solito provincialismo di un paese angusto, ma anche un segno, uno dei tanti che in Europa non ci conosciamo. E quando non ci si conosce, non ci si può capire. Siamo tutti qui a lamentarci dell’insensibilità dei paesi del nord e dell’est Europa sulla questione dell’immigrazione. Ma qualcuno di noi conosce le preoccupazioni e i problemi di questi paesi? Solo per fare un esempio, adesso che hanno la presidenza dell’Ue, qualche giornale in Italia ci sta raccontando cosa c’è sulle prime pagine dei giornali estoni, di cosa si parla a Tallinn, quali sono i temi di attualità in Estonia? Se gli italiani sapessero che una delle grandi paure di questo come degli altri paesi baltici è la Russia, e se di converso i baltici sapessero di più sulla nostra emergenza immigrazione, forse potremmo capirci meglio e le nostre rispettive opinioni pubbliche potrebbero influenzare le decisioni della politica, diffondendo quella sensibilità ai problemi degli altri che oggi manca totalmente.
Il primo, grande ostacolo al rilancio dell’Unione europea è questo: che non ha un demos, un popolo. Non c’è un’opinione pubblica europea che possa discutere delle grandi questioni che ci riguardano tutti ma solo tante, isolate opinioni pubbliche che vivono in compartimenti stagni senza sapere nulla l’una dell’altra. La barriera è più culturale che linguistica, riguarda la visione di sé e del resto del mondo. Perfino le nostre più intelligenti rassegne stampa, come Radio Tre Mondo, ci parlano di Cina e America, di Francia e Regno Unito ma non ci dicono nulla dei tanti altri paesi che sono pur parte dell’Unione europea. In fin dei conti, ci serve di più conoscere la situazione politica della Slovacchia che quella del Venezuela. Ma una protesta in Venezuela fa notizia, una in Slovacchia no. Non c’è nella stampa europea un formato di informazione incentrato sull’Unione europea.
Poi ci si stupisce che il senso dello stare insieme si smarrisca e che l’idea dell’Unione vada alla deriva. Non c’è mai stato un senso, non si è mai coltivata l’idea. In Italia le questioni europee sono sempre affrontate in chiave di buoni e cattivi, ammessi e respinti. Dall’economia, all’immigrazione, dal debito pubblico alle banche. La nostra informazione continua ad opporre l’Italia all’Unione europea, come se l’Unione europea fosse un monolite uniforme e unanime che ci si contrappone. Non è così. L’Unione europea è fatta di tanti paesi, di tante opinioni pubbliche diverse, con sensibilità, preoccupazioni, speranze e paure diverse. Permettere loro di parlarsi è una necessità.
Più delle riforme dei trattati e delle convenzioni, più degli slogan stantii e autocelebrativi che nessuno capisce più, queste sono le piccole rivoluzioni che possono davvero cambiare il destino dell’Unione e creare un sostrato culturale di comune appartenenza di cui ogni gruppo sociale ha bisogno per sentire di condividere uno stesso destino.