di The Economist
I campi di battaglia sono ben definiti. Questa settimana, quando le più grandi economie del mondo si troveranno al vertice G20 di Amburgo, tutto è pronto per uno scontro tra l’America protezionista e la Germania favorevole al libero mercato.
Il presidente Donald Trump si è già chiamato fuori da un trattato commerciale, il Trans-Pacific Partnership (TPP), e ha chiesto la rinegoziazione di un altro, il North American Free-Trade Agreement (NAFTA). Sta soppesando l’opportunità di imporre dazi sull’importazione di acciaio in America, una mossa che quasi certamente provocherebbe delle rappresaglie da parte dei partner commerciali. La minaccia di una guerra commerciale incombe fin dall’inizio della presidenza Trump, a gennaio. Al contrario Angela Merkel, cancelliera tedesca nonché padrona di casa del summit di Amburgo, farà rullare i tamburi in favore del libero commercio. In un malcelato attacco contro Trump, nel suo discorso del 29 giugno la Merkel ha condannato le forze protezioniste e isolazioniste. Un imminente accordo di libero scambio tra Giappone e Unione Europea darà ulteriore sostanza alla sua retorica (vedi articolo).
Non c’è dubbio su chi abbia la meglio su questo argomento. La dottrina di Trump secondo cui il commercio deve essere equilibrato per essere corretto è economicamente analfabeta. La sua idea che i dazi potranno riequilibrare la situazione è ingenua e pericolosa: al contrario, ridurrebbero la prosperità per tutti. Ma almeno da un punto di vista Trump ha colto una scomoda verità. Ha ammonito la Germania per il suo surplus commerciale, che si colloca attualmente a quasi 300 miliardi di dollari all’anno, ed è il più grande del mondo in termini assoluti (il surplus accumulato dalla Cina è appena di 200 miliardi). La soluzione che lui minaccia – mettere fine all’acquisto di automobili tedesche – può essere controproducente per la stessa America, ma resta il fatto che la Germania risparmia troppo e spende troppo poco. La dimensione e la persistenza dei risparmi tedeschi fanno della Germania un difensore un po’ improbabile del libero commercio.
Armonia imperfetta
In fin dei conti il surplus tedesco consiste in un eccesso di risparmi a livello nazionale rispetto agli investimenti interni. Nel caso tedesco non si tratta del risultato di una politica mercantilista decisa dal governo, come alcuni all’estero lamentano. Non si tratta nemmeno, come spesso insistono i tedeschi, del riflesso di un’urgente necessità di accumulare risparmi per una società che sta rapidamente invecchiando. Il tasso di risparmio delle famiglie è stabile, sebbene ad un livello elevato, da anni. L’aumento dei risparmi è venuto soprattutto dalle imprese e dai governi.
Dietro al surplus tedesco sta un accordo di decenni tra imprese e sindacati a favore di una compressione dei salari al fine di rendere più competitive le industrie esportatrici (vedi articolo). Questa moderazione è stata molto utile all’economia tedesca, guidata dalle esportazioni, nella sua ripresa dopo la Seconda Guerra Mondiale e successivamente. È un istinto della Germania che spiega il suo passaggio da “malato d’Europa” negli anni ’90 all’attuale super-campione che è diventata.
C’è molto da invidiare al modello tedesco. L’armonia tra imprese e lavoratori è stata una delle principali ragioni delle strabilianti prestazioni dell’economia tedesca. Le imprese hanno potuto investire senza preoccuparsi che i sindacati sarebbero venuti a reclamare la propria parte. Lo Stato ha fatto la propria parte sostenendo un sistema di formazione professionale che è giustamente ammirato. In America le prospettive lavorative degli uomini che non hanno un diploma di maturità [college] sono peggiorate di pari passo al declino dei posti di lavoro nella manifattura – questa è una delle cause che hanno prodotto il nazionalismo oggi sposato dal presidente Trump. La Germania non è sfuggita completamente a tutto questo, ma è riuscita a mantenere in misura maggiore i posti di lavoro degli operai che oggi mancano all’America. Questa è una delle ragioni per le quali il partito populista Alternativa per la Germania resta ai margini della politica tedesca.
Ma gli effetti avversi di questo modello sono sempre più evidenti. Questo modello ha reso pericolosamente sbilanciati l’economia tedesca e il commercio globale. La compressione salariale ha portato la Germania a un basso livello di spesa interna e a uno scarso livello di importazioni. La spesa per i consumi è caduta ad appena il 54% del PIL, a confronto del 69% in America e al 65% in Gran Bretagna. Gli esportatori non investono poi i loro profitti entro i confini nazionali. E la Germania non è sola in questo. Anche la Svezia, la Svizzera, la Danimarca e l’Olanda hanno ammassato grandi surplus commerciali.
Il fatto che una grande economia in condizioni di piena occupazione accumuli surplus commerciali dell’8 per cento di PIL all’anno comporta un’esagerata tensione sul sistema di commercio globale. Per compensare questi surplus e sostenere a sufficienza la domanda aggregata al fine di mantenere i posti di lavoro, il resto del mondo deve indebitarsi e spendere in uguale misura. In alcuni paesi, come l’Italia, la Grecia e la Spagna, i deficit persistenti alla fine hanno portato alla crisi. Il loro successivo ritorno al surplus è avvenuto a caro prezzo. La persistente sovrabbondanza di risparmi nel nord Europa ha reso inutilmente dolorosi i necessari riaggiustamenti. Nei periodi di alta inflazione negli anni ’70 e ’80 la propensione della Germania per gli elevati risparmi è stata una forza stabilizzatrice. Oggi invece sta trascinando verso il basso la crescita globale e rappresenta un bersaglio ideale per i protezionisti come Trump.
Andare oltre la parsimonia
Può essere risolto questo problema? Forse l’eccessivo surplus commerciale tedesco può essere eroso come è già avvenuto per la Cina: con un aumento dei salari. La disoccupazione è inferiore al 4% e la popolazione in età da lavoro si sta riducendo nonostante una forte immigrazione. Dopo decenni di declino il costo degli immobili sta aumentando, il che implica che le retribuzioni non basteranno più come un tempo. Le istituzioni che hanno determinato la compressione dei salari stanno perdendo influenza. L’euro potrebbe rafforzarsi. Nonostante ciò, l’istinto tedesco è ben radicato. I salari sono aumentati del 2,3 percento lo scorso anno, meno che nei due anni precedenti. Se lo si lascia a se stesso, il surplus tedesco potrebbe impiegare molti anni per scendere ad un livello ragionevole.
Il governo dovrebbe contribuire aumentando i livelli di spesa. Il bilancio pubblico tedesco è passato da un deficit del 3% nel 2010 a un lieve surplus. I funzionari politici la definiscono prudenza ma, dati gli alti livelli di risparmio nel settore privato, questa posizione è difficile da difendere. La Germania ha tanti progetti meritevoli di investimenti. I suoi edifici scolastici e le sue strade si stanno sbriciolando a causa della stretta sugli investimenti pubblici imposta dal rispetto di inopportune regole fiscali. L’economia è ancora indietro sulla digitalizzazione, collocandosi al 25esimo posto della classifica mondiale per velocità media di download. Una maggiore offerta di assistenza doposcuola fornita dallo Stato potrebbe permettere a un numero maggiore di madri di lavorare a tempo pieno, in un’economia dove la partecipazione delle donne è bassa. Alcuni dicono che questa espansione sarebbe comunque impossibile a causa della già raggiunta condizione di pieno impiego. Eppure, in un’economia di mercato c’è un modo ben consolidato di attirare le risorse scarse: pagarle di più.
Soprattutto è già passato molto tempo ed è ora che la Germania ammetta che il proprio eccesso di risparmi è una debolezza. La Merkel ha ragione ad affermare il proprio messaggio a favore del libero commercio. Ma lei e i suoi compatrioti devono capire che sono proprio i surplus tedeschi a rappresentare una minaccia alla legittimità del libero commercio.
Pubblicato sull’Economist l’8 luglio 2017. Traduzione di Voci dall’Estero.