di Alfio Mastropaolo
I significati delle parole e dei gesti notoriamente cambiano. Nello spazio e nel tempo. Tra i gesti e le parole e i gesti che stanno attualmente cambiando di significato c’è pure il voto. Che è già cambiato altre volte. Una cosa era il suo significato iniziale, quando il suffragio era ristretto, e il voto era una testimonianza di deferenza, o d’amicizia, di un pugno di elettori nei confronti di un notabile, un’altra cosa è divenuto il voto al tempo del suffragio universale. È probabile che per una quota di nuovi elettori, che non erano ben al corrente dei suoi effetti, il significato del voto fosse dapprincipio quello di un adempimento burocratico: in Italia tra le elezioni del 1909 e quelle del 1913, le ultime a suffragio ristretto, le prime a suffragio cosiddetto universale, la percentuale dei votanti scese dal 65 al 60 per cento. Ma col tempo, grazie all’azione promozionale dei partiti di massa, il voto acquistò un nuovo significato. Secondo Alessandro Pizzorno, divenne più rivendicazione di appartenenza che non atto di scelta. Gli elettori confermavano la loro affiliazione a un partito inteso quale collettività di riferimento, ma comunque votavano.
È probabile che a lungo andare il voto come scelta abbia preso un po’ di quota. In ragione del più elevato livello d’istruzione e informazione degli elettori. Ciò malgrado, il voto di appartenenza persiste: il Veneto bianco è sempre bianco, anche se la Lega manca delle salutari ipocrisie della DC; l’Emilia è sempre rossa, anche se un po’ impallidita. Il voto è come l’appartenenza calcistica. Non vi si rinuncia facilmente. Perfino il collasso dei partiti storici in Italia non ha stravolto la sociologia elettorale. Con qualche fatica l’elettorato si è riaccasato tra i nuovi contenitori che sentiva più prossimi.
I partiti lo sanno e ne approfittano. Si concedono da tempo mosse molto poco convenienti ai propri elettori, contando sulla loro fedeltà e cercando di abbacinarli col marketing elettorale e gli effetti speciali della leadership personale. Se non che, la fedeltà degli elettori ha pur sempre un limite. A osservare i loro comportamenti, la loro insofferenza nei confronti dei partiti convenzionali e delle politiche da essi adottate è in crescita da almeno un ventennio. Le differenze tra i partiti non sono irrilevanti. Prodi non era Berlusconi. Blair non era la Thatcher. Sarkozy e Hollande non si equivalgono. Ma le politiche adottate sono pur sempre modulazioni differenti di orientamenti analoghi. Visto che il voto ha perso ogni valore, tanto di appartenenza, quanto di scelta, ecco che allora gli elettori protestano o si ammutinano. Protesta e ammutinamento sono i nuovi significati del voto.
Una prima forma di protesta è arcinota e consiste nel rivolgersi alla nuova destra estrema, sotto l’etichetta edulcorata di populismo. Che ha promosso la radicalizzazione antipolitica degli elettori insofferenti verso lo Stato sociale, gli immigrati, il Mezzogiorno, l’UE. Ma è riuscita ad attrarre pure elettori provenienti dal versante opposto. Meno di quanto i media si compiacciano di raccontare. Ma c’è effettivamente una quota di ex-elettori di sinistra che per disperazione si è riconvertita. Forse solo provvisoriamente.
Una seconda manifestazione di protesta è il voto per quelli che potremmo chiamare i partiti-Zelig. Grillo ne ha inventato uno per primo, attirando un po’ di scontenti di sinistra, per poi rivolgersi, eccitato dal successo, a quelli di destra, disorientati – provvisoriamente – dal collasso di Berlusconi. Ha perfino fatto scuola. Anche quello fondato da Macron in Francia è un partito-Zelig, anche se più raffinato. È il paradosso di un partito anti-establishment promosso addirittura dall’establishment e guidato da un personaggio che, dopo esser stato assistente di un filosofo à la page, ha fatto il banchiere, l’alto funzionario, il ministro: una sintesi perfetta dei quartieri alti, tecnocratico-imprenditoriali, d’oltralpe.
Una terza possibilità, non secondaria, che da qualche parte funziona, è il voto per i partiti della nuova sinistra, anch’essi frettolosamente – e strumentalmente – etichettati come populisti: SYRIZA, Podemos, lo Scottish National Party.
A riscuotere da ultimo più successo è tuttavia una quarta possibilità, ovvero l’ammutinamento costituito dal non voto, o dalle schede bianche e nulle. Per molto tempo i partiti convenzionali l’hanno sottovalutato. In realtà, la crescita esponenziale dell’astensione, prima riservata agli elettori meno istruiti, le ha conferito un altro significato. È un grande ammutinamento, che colpisce per lo più i partiti di sinistra.
Le due contese elettorali svoltesi in Francia negli ultimi tre mesi illustrano molto efficacemente il malsano intreccio tra protesta e ammutinamento. Al primo turno delle presidenziali ha votato il 77 per cento degli elettori: un quarto si è pronunciato per i candidati dei partiti tradizionali (socialisti e repubblicani), mentre il resto hanno protestato votando per i candidati di liste, raggruppamenti, candidati situati al margine o al di fuori dalla scena politica ufficiale: Macron, Le Pen, Mélenchon e altri minori. Agli 11 milioni di astenuti va aggiunto ancora un milione di schede bianche e nulle. Insomma: 8 elettori su 10 hanno manifestato la loro insofferenza per la politica. Al secondo turno astenuti e schede bianche e nulle sono saliti a 16 milioni. A fronte dei 21 milioni di voti con cui è stato eletto Macron.
Alle legislative dell’1-18 giugno scorso è andata ancora peggio. Macron nel frattempo ha fatto il suo governo e ha mostrato il suo vero volto. Il suo partito-Zelig è la maschera della politica più convenzionale. Prontamente rischieratosi, assemblando frattaglie dei due maggiori concorrenti, Repubblicani e Socialisti, un po’ di cosiddetta società civile, ma pur sempre tanto establishment, nazionale e locale. Ebbene, se al primo turno ha votato il 48 per cento, i votanti sono scesi al 42 al secondo turno. Il partito di Macron ha stravinto. Ma quasi 8 francesi su 10 hanno ricusato il verdetto. Incidentalmente: un altro dato merita di essere ricordato. Come qualcuno ha fatto opportunamente notare, il partito di Macron ha preso al primo turno 6 milioni e 400 mila voti, le liste, vecchie e nuove, di sinistra, cioè socialisti, verdi, comunisti e Insoumis, ne hanno raccolti 6 milioni. Salvo che, col sistema elettorale in vigore da quelle parti, al secondo turno solo una sessantina di deputati sono andati alla sinistra e ben 308 deputati al partito di Macron. Tra gli entusiastici osanna degli sciocchi di casa nostra.
In un’atmosfera non troppo diversa si sono svolte le amministrative italiane. È vero, tradizionalmente alle amministrative si vota meno, ma stavolta l’astensionismo ha tracimato: gli elettori si sono ammutinati. Non sopravalutiamo il successo delle destre, in gran parte populiste. Non c’è amministrazione municipale che nell’ultimo quinquennio non abbia operato in condizioni difficilissime. Le decurtazioni finanziarie sono state spietate e così la riduzione dei servizi. Tutti i governi, da Monti in poi, hanno furbescamente scaricato sulle amministrazioni locali larga parte delle politiche di austerità, tagliando i trasferimenti e bloccando indiscriminatamente la spesa. Essendo alla guida del maggior numero di amministrazioni locali, il PD ha pagato un prezzo altissimo. Ci sarebbe poi da mettere nel conto l’impatto devastante che ha avuto l’azione di Renzi quale leader del PD sulla comunità di riferimento della sinistra. Né va dimenticata la sua azione di governo: diretta e per interposto fantasma. Ammettiamo pure che fossero misure utili e perfino indispensabili. Ma se qualcuno s’illudeva che il jobs act, i vouchers potessero sedurre gli elettori, non ha il polso del paese. Hanno forse persuaso qualche imprenditore, ma non i grandi numeri, che hanno il vizio di cercare posti di lavoro almeno un poco stabili e non sottopagati. L’economia è sempre al palo, il deficit occupazionale resta drammatico, le disuguaglianze crescono a vista d’occhio. Il referendum del 4 dicembre era stato un avvertimento. Chi scambia la lealtà per dabbenaggine fa male i conti.
Chi ne ha goduto è la destra populista. La quale, in un clima di protesta e ammutinamento generali, ha trattenuto un po’ di più i suoi elettori. Se le politiche non cambiano, è probabile che oggi goda e domani pianga. Magari nel frattempo perpetrando qualche disastro, come fare propaganda xenofoba, eventualmente tirandosi appresso il PD. È ancora da notare come il disastro che ha travolto il PD ha lambito il partito-Zelig dei 5 Stelle. Nella sua azione di rappresentanza (nazionale e locale) e nella sua azione di governo (locale) non s’è mostrato migliore dei concorrenti: una conduzione rasputiniana, un po’ di pasticci nell’approntamento delle liste e la miserabile inadeguatezza della sua azione di governo a Roma e da altre parti, ne hanno arrestato lo slancio. Pensava di cavarsela cavalcando l’ostilità verso i migranti, ma è forse cominciato il suo declino.
Solo gli sciocchi possono ignorare il mostruoso ammutinamento che oggi l’astensionismo segnala. Un ammutinamento di tale portata – ma in tutt’altre forme – era avvenuto nel ’68. Governare un grande paese, o una grande città, contro una larga quota di elettori che protestano e una metà, o giù di lì, che diserta le urne, è un fallimento, preludio di fallimenti ulteriori. È un fallimento per la democrazia, è un rischio perché gli astenuti di sinistra ingrassano la destra – il ricatto del voto utile non funziona più – ed è un motivo di debolezza gravissimo per chi governa. Il mantra della stabilità, che da un quarto di secolo ossessiona gli sciocchi, si è risolto in instabilità: tanto profonda quanto inquietante. Il futuro non promette nulla di buono.
Ciò malgrado, non è detto che il peggio sia inevitabile. La Gran Bretagna ha avuto la sua grande insurrezione in occasione del referendum intorno al Brexit: che ha prodotto più un voto contro, che un voto a favore. Arrivato inopinatamente alla guida del Labour, contro la volontà del parliamentary party, grazie al favore della base, che l’ha confermato ben due volte, Jeremy Corbyn ha testardamente voluto nuotare contro corrente e, a dispetto di qualsiasi sondaggio, ha intercettato sia gli ammutinati sia la protesta. Tra il 2015 e oggi il Labour ha guadagnato quasi tre milioni di voti, salendo dal 30 al 40 per cento dei consensi. In che modo? Rispolverando la tradizione socialista, riscoprendo il keynesismo e promettendo un fascio, circoscritto ma affilato, di misure redistributive a favore della gran massa della popolazione. I critici, anche della sinistra del Labour, preannunciavano una grave emorragia di consensi verso il fronte opposto. Non c’è stata. Proporsi quale reale alternativa, offrire agli elettori una scelta chiara in cui riconoscersi, ha pagato. Il Partito Laburista ha trattenuto i suoi vecchi elettori, anche quelli moderati, e ne ha guadagnati di nuovi, tra quelli che da tempo l’avevano abbandonato. Cinque anni or sono c’era stato un deflusso protestatario verso lo Scottish National Party e verso l’astensione, a destra verso l’UKIP.
Possiamo considerare Jeremy Corbyn un modello? Ogni paese ha la sua storia e gli ingredienti di una buona ricetta sono numerosi. Ma è certo che Corbyn ce l’ha fatta. Il Regno Unito non è più lo stesso. A volta il modo migliore di andare avanti è proprio andare indietro. Un restauro ben fatto vale più di tante modernità improvvisate. Un’ultima osservazione: il successo di Corbyn conferma che i sistemi elettorali non sono poi così importanti. Certo, la legge Acerbo e l’Italicum erano mostruosità. Ma in democrazia conta di norma il seguito che si raccoglie. Se è ampio, coeso e convinto, nessuno potrà sottovalutarne la forza politica. Si può essere credibili ed efficaci restando all’opposizione. Si smetta di illudersi che la sola posta in gioco sia una maggioranza purchessia, eventualmente prodotta da qualche alchimia legislativa!
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 5 luglio 2017.