di Giancarlo Di Stadio
Settimane di fuoco per la politica britannica. Un giugno caldissimo, tra elezioni anticipate ed inizio negoziati per la Brexit, con la stampa di entrambe le sponde della Manica ansiosa di capire come lo strappo tra Ue e Regno Unito si formalizzerà. “E’ stato un anno di turbolenze politiche” ha dichiarato Eleonora Poli, ricercatrice presso l’Istituto di Affari Internazionali ed esperta del tema Brexit. “Non ultime le elezioni anticipate”. E proprio il risultato delle elezioni getta ancora più incertezza sul futuro politico della Gran Bretagna e non solo. La premier May le aveva indette certa di una vittoria che aumentasse un po’ le fila dei Conservatori in Parlamento e compattasse attorno alla sua figura il partito (l’ombra di Boris Johnson è sempre in agguato) per presentarsi al tavolo della Brexit senza l’impressione di avere dietro di sé un paese diviso sul tema.
Ma il leader outsider del Labour Party Jeremy Corbyn che, nonostante sia stato in certi frangenti osteggiato dal suo stesso partito, è riuscito nell’impresa di annullare quasi del tutto il vantaggio che i Conservatori avevano ad inizio campagna elettorale, costringendo questi ultimi a “scendere a patti” con gli unionisti nordirlandesi per la formazione del nuovo governo.
Un risultato che, come detto a torto, è stato visto come un successo degli anti-Brexit. Ma la stessa Poli ci fornisce una visione più complessa: “L’elettore nell’ultima chiamata al voto non è andato alla urne pensando di assegnare un voto pro o contro l’Europa”. A ben vedere infatti Corbyn non ha mai apertamente dichiarato di essere contro la Brexit, così come l’universo laburista ha posizioni molto varie in merito. L’unico partito dichiaratamente europeista, il LibDem, ha ottenuto una decina di seggi in tutto. Lo stesso Ukip sembrerebbe, con la vittoria nel referendum dello scorso anno, aver letteralmente concluso la sua parabola politica. Appare chiaro che il peso della Brexit nelle elezioni inglesi sia stato molto più marginale di quanto “sul continente” si tende a credere, sottovalutando così le altre possibili chiavi di lettura.
Il successo di Corbyn può essere visto in un’ottica più ampia, legando il suo exploit alla presenza di un discorso politico “di sinistra”. La riproposizione da parte di Corbyn di tematiche ritenute, anche da chi nominalmente si professa di sinistra, “fuori dal tempo” come la tassazione dei redditi più alti, le statalizzazioni, il blocco dell’innalzamento dell’età pensionabile, ha invece fatto molta presa sull’elettorato. Da un lato molti elettori hanno ritrovato tematiche vicine al loro pensiero e ai loro desideri, dall’altro proprio la presenza in campagna elettorale di queste tematiche ha tolto terreno fertile ai partiti cosiddetti populisti (si pensi al tracollo dell’Ukip). Un populismo che riduttivamente viene sempre messo in dicotomia solo con l’europeismo liberista e che paradossalmente si rafforza proprio in assenza di proposte politiche serie nei confronti dei ceti medio-bassi.
Resta sul campo una domanda: possono più proposte “di sinistra” costituire una sorta di antidoto al populismo? Nonostante le pur apprezzabili performance di Melenchòn alle presidenziali francesi (al primo turno ha preso solo il 4,5% in meno dell’homme nouveau Macron) o di Podemos in Spagna, la sinistra in Europa sembra attraversare sempre di più una crisi innanzitutto ideologica. L’aver gettato la spugna sul tema dei diritti collettivi (lavoro, welfare, ri-distibuzione delle ricchezze) in favore dell’accettazione quasi totale del neoliberismo, concentrandosi, nemmeno tanto seriamente, solo su alcuni temi dei pur sacrosanti diritti individuali (es. unioni civili), ha fatto sì che buona parte del potenziale bacino elettorale si gettasse tra le braccia dell’astensionismo (mai a livelli così alti in Europa) o peggio del populismo. Il ridimensionamento di alcuni storici partiti di sinistra come il Partito Socialista Francese, il PSOE spagnolo o il PASOK greco, e lo spostamento “verso il centro” di altri, come il PD o lo stesso Labour Party all’epoca di Blair, rappresentano un rischio per la dialettica politica europea. La mancanza di un’alternativa nel discorso politico su alcuni temi chiave (due su tutti: economia e lavoro) rispetto all’attuale liberismo rischia da un lato di allontanare un’ampia fetta di cittadini europei dai meccanismi democratici e dall’altro di fornire terreno fertile ai partiti populisti come Front National e Lega, ansiosi di conquistare elettoralmente gli “arrabbiati”, gli “scontenti” e soprattutto coloro che si sentono “esclusi” da questo attuale sistema politico ed economico europeo.