La sentenza della Corte di Giustizia Europea (c.d. sentenza sul latte di soia) determina un’enorme e inutile complicazione i cui riflessi rischiano di andare a svantaggio dei consumatori, le cui abitudini verranno minate dagli effetti della decisione.
A nostro avviso, stabilendo che solo i prodotti lattiero-caseari possano utilizzare la denominazione latte, burro, crema di latte, panne, formaggio, yogurt, la sentenza della Corte è il prodotto tipico di quest’epoca di “iper-regolamentazione” comunitaria.
Da un lato, infatti, esisteva già una norma (il Regolamento 1308/2013) che tutt’ora incide a livello “globale” su usi ed abitudini lessicali adottate anche localmente e che permette di utilizzare i termini latte, burro, formaggio etc. anche per prodotti che non hanno origine lattiero-casearia (ma per i quali la loro stessa natura è ontologicamente chiara per “uso tradizionale” a definire il prodotto). Dall’altro lato, però, la Corte, con un approccio ancora più rigido, provocherà conseguenze che neppure il Regolamento aveva voluto perseguire.
Come chiamare in futuro il latte di soia? Si dovranno inventare nuove denominazioni? Quali? Succo di soia? Ma è un succo? Perché poi latte di soia non sta bene mentre stanno bene i termini latte di cocco o latte di mandorle in quando inseriti nell’elenco dei termini ammessi dal Regolamento?
La sentenza stessa, paradossalmente, ritiene anche che i consumatori siano meno avveduti di quanto non siano realmente. Il consumatore medio è perfettamente consapevole che il latte di soia non è un prodotto di un animale e così gli altri prodotti di origine vegetale che possono utilizzare le denominazioni incriminate. Ritenere il contrario è fare un torto alla categoria dei consumatori, non proteggere gli stessi.
Avv. Marco Consonni