di Carlo Clericetti
Una crescita tripla rispetto all’Italia: il PIL spagnolo è aumentato del 3,3% nel 2016 (il nostro lo 0,9) ed è previsto al 2,7 quest’anno, contro la stima dell’1% per noi, appena comunicata dall’ISTAT, che però ha aggiunto un “se tutto va bene”, ossia se il commercio internazionale continuerà a tirare. Qual è il segreto? La politica di austerità che ha funzionato? Tenta di rispondere un paper appena pubblicato da Ref, l’istituto di analisi congiunturali diretto da Fedele De Novellis.
Quello che se ne ricava è che la Spagna ha attuato un mix di politiche, che si potrebbe definire di “riforme strutturali” del tipo che piace tanto all’Europa (e alla Germania), ma accompagnate da massicce dosi di politiche (più o meno) keynesiane. E poi un ruolo non irrilevante l’ha avuto anche quello che Prodi chiamava “il fattore C”, ossia la fortuna. Ma vediamo in dettaglio.
La Spagna ha fatto una politica di austerità? Beh, grazie alle riforme del lavoro che hanno dato mano libera agli imprenditore di fare quel che vogliono (facendo rimpiangere le leggi franchiste come un modello di garantismo) i salari sono scesi in media del 10% e la disoccupazione ha raggiunto picchi oltre il 26% nel 2013, per poi ridursi fino all’attuale 18% circa, il più alto in Europa dopo la Grecia. Ma tutta l’austerità l’ha concentrata sul lavoro, perché invece la politica di bilancio è stata ultra-espansiva. Ecco un confronto con l’Italia in due grafici tratti dallo studio Ref.
Come si vede, del limite al deficit al 3% la Spagna se n’è infischiata alla grande, e ancora se ne infischia (come la Francia, d’altronde). E guardiamo il saldo primario, cioè la differenza fra entrate e spese pubbliche al netto degli interessi: quello dell’Italia torna in attivo già nel 2011. Quindi, mentre infuria il periodo più nero della crisi, la nostra politica di bilancio sottrae risorse all’economia, perché spende meno di quanto preleva. L’ulteriore spesa per interessi a questo fine praticamente non conta, perché sono risorse che in parte vanno agli investitori esteri e per il resto rimangono essenzialmente nel circuito finanziario, senza passare all’economia reale.
Già, ma contro la Spagna è stata aperta una procedura di infrazione per violazione delle regole europee. E che cosa ne è derivato? Niente. La procedura è lì, ovviamente ancora in piedi perché il deficit spagnolo è ancora tra il 4 e il 5%, ma di penalità o multe neanche l’ombra. Come mai? E chi lo sa. Magari la Commissione è rimasta tanto impressionata dalle durissime riforme del lavoro e dai tagli ai salari che le sanzioni le sono passate di mente. Si è distratta. Capita.
Naturalmente, con quei po’ po’ di deficit accumulati il debito pubblico ha preso il volo. Era al 38% del PIL prima della crisi, nel 2015 è arrivato a sfiorare il 100%: un aumento del 263%. Anche il nostro debito è aumentato, ma solo del 34%. La consueta obiezione è che gli spagnoli quella politica se la potevano permettere, proprio perché il rapporto debito/PIL era basso, mentre noi partivamo già dal 100%. Già, ma guardiamo il grafico del debito pubblico.
Dopo la grande corsa, il rapporto debito/PIL della Spagna nel2016 ha cominciato a scendere. Eppure (grafici sopra) il deficit è stato ancora di circa il 4,5% e il saldo primario negativo di circa l’1,8%.
Già, ma nel frattempo è cresciuto il denominatore (il PIL) e quindi il rapporto si riduce lo stesso. Dove avevamo già visto una cosa del genere? L’avevamo vista per gli USA. Anche lì per fronteggiare la crisi hanno fatto deficit (nel 2009 il 9,8%, poi è sceso gradualmente fino al 2,5% del 2015). E anche lì il debito/PIL, arrivato al 120,6% nel 2014, a fine 2016 era al 105%. Il rapporto debito/PIL si riduce in un solo modo, facendo crescere il PIL. E con politiche di bilancio restrittive – come le nostre – il P IL non cresce, o non cresce abbastanza.
La finanza pubblica non è stata la sola differenza tra i due paesi. La ripresa spagnola è stata spinta soprattutto da due fattori: i consumi e le esportazioni. E come hanno fatto i consumi a crescere, con la disoccupazione alle stelle e i salari tagliati? Beh, una parte consistente di soldi pubblici sono andati in sussidi, un punto di PIL più che da noi, spiega De Novellis, e infatti il reddito disponibile è salito più che da noi. D’altronde con quella politica durissima il governo doveva pur fare qualcosa per evitare una rivoluzione. Inoltre gli spagnoli hanno risparmiato meno di noi (o, detto in altro modo, hanno mostrato una più elevata propensione al consumo).
L’altro fattore sono state le esportazioni, che hanno avuto una crescita vivace, favorite dalla svalutazione interna e anche dal “fattore C”: i rapporti commerciali della Spagna sono molto orientati verso l’America Latina, e quindi il paese non ha subìto come noi le sanzioni alla Russia e la situazione problematica dei paesi del Nord Africa. Inoltre gli spagnoli hanno speso soprattutto all’interno, nell’alimentare, alberghi e pubblici esercizi, quindi le importazioni sono aumentate meno di quelle italiane.
Ciò detto, va segnalato un problema tecnico. Anche nel comunicato di ieri l’ISTAT ha rilevato che la componente estera netta ha avuto un effetto negativo sul nostro PIL, anche se solo dello 0,1%. Ma come mai, visto che nel 2016 il valore del saldo commerciale è stato positivo per ben 51,6 miliardi, un livello record secondo in Europa solo a quello tedesco? Il fatto è che, ai fini del contributo al PIL, si calcolano le quantità e non i prezzi, e il nostro export come quantità è leggermente diminuito. Ma se con una quantità inferiore sono aumentati gli incassi il dato dovrebbe essere positivo: significa che vendiamo all’estero prodotti di maggior valore. La regola contabile però non se ne cura. Si crea così il paradosso che per la Spagna il contributo estero al PIL è positivo e per noi negativo, nonostante che il saldo spagnolo sia intorno al 2% del PIL e il nostro intorno al 3.
Un altro fattore di vantaggio della Spagna è stata una più ampia disponibilità di credito, derivante anche dal fatto che la crisi delle banche spagnole è esplosa subito, a causa della loro forte esposizione con la bolla immobiliare. Questo ha costretto Madrid a chiedere gli aiuti europei per oltre 40 miliardi di euro e ha sostanzialmente risolto il problema. Oggi si dice che avremmo dovuto farlo anche noi, ma questa critica sa piuttosto di “senno del poi”. All’epoca il livello di sofferenze delle nostre banche non era a livelli patologici, e infatti non ci siamo dovuti svenare in salvataggi come quasi tutti gli altri paesi europei. Se poi però la crisi si prolunga per anni e anni, facendo strage di imprese, è ovvio che le sofferenze decollino. I nostri problemi bancari sono figli più di una politica sbagliata (europea, ma anche italiana) che di altro (a parte, ovviamente, i casi di mala gestione, da Monte Paschi alle famose quattro Casse di Risparmio alle banche venete).
Insomma, la Spagna ha fatto una politica di successo dal punto di vista della crescita del PIL, unendo svalutazione interna, spesa pubblica à gogo e un po’ di fortuna (per mercati di esportazione, per la crisi bancaria esplosa “al tempo giusto”, perché i suoi cittadini hanno deciso di risparmiare meno e spendere di più). Il successo sul PIL è stato però pagato duramente dai lavoratori e soprattutto da chi il lavoro l’ha perso. Come al solito, i grandi capitalisti e banchieri fanno grandi guai, e i poveracci sono chiamati a rimediare.
Pubblicato su Repubblica il 23 maggio 2017.