di Giampaolo Rossi
Pluralità di proposte e necessità di un confronto
Le proposte di riforma dell’Unione europea stanno venendo fuori come i funghi in autunno. Il terreno è favorevole: che l’Unione sia necessaria è una convinzione prevalente ed altrettanto lo è che vada riformata, perché sono evidenti i limiti che alimentano le tendenze nazionalistiche, finora frenate ma ben lontane dall’esaurirsi.
È utile darne un quadro generale, anche se non esaustivo, per fare un po’ di chiarezza, agevolare il confronto e favorire il dibattito.
- A) Gli obiettivi
Con una certa approssimazione, le proposte sono riconducibili a tre esigenze:
- avvicinare l’Europa ai bisogni dei cittadini, facendone un fattore di sviluppo, anziché di controllo e di freno, e quindi creando occupazione, contribuendo alla sicurezza esterna e interna (forze armate e intelligence), garantendo alcune misure di politica sociale;
- democratizzare le istituzioni, aumentando i poteri di quelle di diretta investitura popolare già esistenti o da istituire e coinvolgendo i Parlamenti nazionali;
- creare i presupposti per la moneta unica, a posteriori, visto che non lo si è fatto prima, agendo sul bilancio dell’Unione e su quelli nazionali.
Su queste esigenze concordano tutte le proposte volte a rafforzare l’Unione, anche se diverse sono poi le misure e, come si vedrà, gli strumenti da utilizzare per conseguirle.
Si distinguono, ovviamente, da queste le proposte che teorizzano la formazione di due monete europee o che ipotizzano, nei singoli paesi, l’uscita dall’euro configurando ciò che resterebbe dell’Europa poco più o poco meno che una zona di libero scambio.
- B) Le variabili negli strumenti
b1) nelle fonti normative
Una variabile che attraversa le proposte è se possano/debbano essere fatte
- a Trattati invariati
- o con modifiche puntuali o ampie degli stessi
- o utilizzando lo strumento di Trattati diversi, non incompatibili con il TUE e il TFUE, come si è fatto con il fiscal compact, con il Patto di stabilità monetaria (ESM) e con il Fondo di risoluzione delle crisi bancarie (IGA).
La variabile è molto importante: si è già sperimentata la difficolta di una riforma dei Trattati, che richiede l’unanimità dei paesi membri, confermata dai parlamenti nazionali e dagli eventuali referendum.
Perciò è stata escogitata la formula dei Trattati collaterali che, con la sentenza Pringle della Corte di giustizia, sono stati considerati non incompatibili con i Trattati europei.
Resta però da comprendere (e si vedrà in seguito) fino a che punto si possa dilatare questa attività normativa parallela senza andare in conflitto con i Trattati e se la condizione di estrema difficoltà nella modifica dei Trattati possa non riscontrarsi per modifiche puntuali che incontrano il favore dell’opinione pubblica europea e dei singoli paesi.
b2) nel numero dei Paesi coinvolti
In parte collegate alle variabili precedenti sono quelle che riguardano il numero dei Paesi coinvolti che, a seconda delle diverse proposte, possono essere
- tutti gli Stati facenti parte dell’Unione,
- solo quelli dell’Euro,
- o solo alcuni fra questi.
Ci si è occupati più ampiamente del problema in ridiam.it nel documento L’Unione europea possibile e necessaria: l’Europa a cerchi concentrici. L’idea di una articolazione dell’’Europa in senso non regressivo ma per consentire ai paesi più disponibili di fare passi in avanti in attesa degli altri è senz’altro opinabile ma è prevista dagli stessi Trattati con la formula della cooperazione rafforzata e, per l’esercito, della cooperazione strutturata permanente (art. 42,6°c. T.U.E).
b3) nella soluzione degli squilibri fra i “debiti sovrani”
Questo problema, che corrisponde al terzo degli obiettivi prima indicati, è quello in ordine al quale le proposte sono più marcatamente differenti fra loro perché tocca interessi immediati dei diversi Stati e non si trova, fra quelle presentate da organi ufficiali dei singoli Stati, nessuna proposta che implichi qualche sacrificio da parte degli stessi. La soluzione del problema viene affidata alle politiche soprattutto fiscali da porre in essere nei singoli Stati e, quanto ai profili istituzionali, la si individua da parte di alcuni nella proposta di istituire organi appositi, come il ministro del tesoro europeo, dotati di potere di veto sulle decisioni dei Parlamenti nazionali incompatibili con le esigenze di riequilibrio. Vi sono all’opposto, proposte, come quella della totale o parziale unificazione dei debiti nel bilancio dell’Unione che lascerebbero ai singoli Stati l’onere di rimborsare i propri ma in un numero maggiore di anni e eliminando la differenza degli spread.
Come si vede, il panorama è molto articolato ma il confronto tra le diverse proposte non raggiunge un sufficiente grado di approfondimento.
La gran parte delle riforme sono state prospettate senza alcuna relazione con le altre già avanzate. È inoltre trascurata la considerazione dei modi in cui le nuove misure si armonizzano nel contesto istituzionale, con l’assetto complessivo finora vigente.
Un tentativo di discutere contestualmente l’insieme delle proposte sul tappeto sarebbe arduo, e probabilmente di scarsa utilità. Una parte di queste è già stata presa in considerazione nel documento “L’Europa necessaria e possibile” e nei precedenti contributi pubblicati in ridiam.it nei quali si è cercato di dare anche un apporto metodologico, sottolineando la necessità che le proposte vengano avanzate con piena consapevolezza del contesto istituzione e politico, verificandone la fattibilità anche dal punto di vista giuridico e anteponendo le funzioni da svolgere all’individuazione degli organi.
Applicando questo metodo e contribuendo al dibattito e al confronto fra le proposte, ci si concentra ora su quelle avanzate più di recente.
2) Alcune recenti proposte
– L’elezione diretta di alcuni organi
Il desiderio di conseguire rapidamente l’obiettivo di democratizzare le istituzioni è alla base della proposta che ogni tanto viene avanzata da più parti; in Italia recentemente da Ernesto Galli della Loggia e Roberto Esposito (Corriere della sera, 10 aprile 2017) e ripresa da altri, anche in sede governativa.
La proposta, da realizzarsi attraverso una “rapida revisione dei Trattati” è di far eleggere direttamente dagli europei riuniti in un unico corpo elettorale “un vertice politico di forte rilievo simbolico, dotato di poteri significativi”: un presidente dell’Unione affiancato da un ministro degli esteri e da un ministro della difesa da lui scelti.
I poteri e le funzioni dovrebbero essere “quelli dell’attuale Presidente della Commissione opportunamente rafforzati e ampliati, e un potere di veto, per altro esclusivamente sospensivo e dunque superabile con un nuovo voto di approvazione, nei confronti di qualsiasi provvedimento adottato da un Parlamento nazionale”. Gli stessi autori hanno “piena consapevolezza della problematicità” della proposta, che “vale soprattutto a riaprire una discussione che oggi appare bloccata”.
In effetti, qualora la si condividesse, la proposta andrebbe quantomeno approfondita, chiarendo in che modo i nuovi organi si rapporterebbero con quelli attuali, a partire dalla Commissione, e quali sarebbero gli ulteriori nuovi poteri, evitando di creare di nuovo organi prima di avere individuato le funzioni.
Per giustificare una investitura popolare diretta i nuovi poteri dovrebbero essere molto incisivi, e non solo di mera redistribuzione fra gli organi fra quelli già esercitati dagli organi dell’Unione, altrimenti si creerebbe uno squilibrio fra la forza politica e quella istituzionale del nuovo organo.
Il potere di veto sospensivo delle decisioni dei parlamenti nazionali (l’unico che viene esplicitato nella proposta) non è coerente con l’obiettivo di avvicinare l’Europa ai cittadini, trattandosi di un potere negativo che determinerebbe contrasti con i Parlamenti e con le loro popolazioni e darebbe un aiuto insperato alle tesi nazionalistiche.
Infine, è molto dubbio che il grande, e certamente utile, rilievo simbolico che avrebbe l’elezione diretta, unita al potere di veto, possa consentire “una rapida revisione dei Trattati”.
- Il programma di Macron
Di grande importanza sono le proposte di riforma dell’Unione contenute nel programma elettorale di Emmanuel Macron.
Il programma contiene l’indicazione di varie misure di rafforzamento dell’Unione che non implicano riforme dei Trattati: creazione di un mercato unico dell’energia, protezione delle industrie strategiche, riserva dell’accesso ai mercati pubblici europei alle imprese localizzate almeno per la metà in Europa, espansione e generalizzazione dell’Erasmus, lotta agli squilibri fiscali nei confronti delle imprese multinazionali, creazione di una Europa della difesa con strumenti militari comuni e un quartiere generale europeo, finanziamento delle start-up europee nel mercato comune informatico, creazione di una forza di 5.000 agenti a guardia delle frontiere europee.
Chi amasse dedicarsi alla ricerca analitica di ciò che manca, anziché constatare quel tanto che c’è, potrebbe rilevare che non vi sono, ad esempio, programmi per una gestione comune dei flussi migratori e per una politica estera comune che possa, tra l’altro, regolarli nelle zone di provenienza.
Ma che la Francia compia un così decisivo passo avanti verso la unificazione sostanziale dei popoli e delle istituzioni è talmente importante da non rendere impropria l’attribuzione di una importanza storica all’evento.
Nella stessa direzione di un rafforzamento e di una democratizzazione delle istituzioni europee è la proposta di Macron di un budget della zona euro votato da un Parlamento della zona euro e reso esecutivo da un ministro dell’economia e delle finanze della zona euro. Questo punto del programma sembra coincidere (ma in realtà è soltanto abbozzato) con la proposta di Piketty e altri che viene ora commentata.
- La proposta di Piketty e altri
Fra le proposte più recenti ha destato grande interesse quella avanzata da Thomas Piketty, insieme a Stéfanie Heurette, Guillame Sacriste e Antoine Vauchez: “Pour un Traité de démocratisation de l’Europe”, pubblicata in Italia da Nave di Teseo e Corriere della Sera (aprile 2017) con il titolo “Democratizzare l’Europa! Per un trattato di democratizzazione dell’Europa”.
La proposta consiste nel prevedere l’istituzione di una Assemblea parlamentare dei paesi dell’euro, composta per quatto quinti da rappresentanti di parlamenti nazionali e per un quinto da rappresentanti del Parlamento europeo, dotata di rilevanti poteri con un consistente rafforzamento dell’Eurogruppo consolidato con un presidente e un Consiglio dei ministri dell’eurozona, fra i quali un ministro dell’economia e delle finanze e un ministro del lavoro e degli affari sociali.
Come spiega Gian Luigi Tosato con una pluralità di osservazioni che mi sembrano senz’altro fondate, non è sostenibile che questa misura sia giuridicamente compatibile con i Trattati europei.
Sul piano sostanziale, poi, l’esistenza di due organi legislativi con competenze non raccordate ed anzi fra loro interferenti determinerebbe una condizione di incertezza giuridica della quale certamente l’Europa non ha bisogno.
La proposta, osserva Paolo Caretti, riproduce i caratteri di ambiguità e contraddittorietà che hanno contrassegnato tutti i ricorrenti tentativi di creare un rapporto con i cittadini rafforzando il ruolo dei parlamenti nazionali, nell’assunto, indimostrato e indimostrabile, che il ricorso alla rappresentanza indiretta sia più efficace di quello della rappresentanza diretta che già si esprime nel Parlamento europeo il cui gap, osserva Caretti, non sta nel tipo di investitura ma nella scarsità di poteri che non gli consentono di svolgere in modo adeguato un ruolo di interlocutore diretto degli Stati e delle popolazioni.
3) La necessità di partire comunque dalle politiche
Qualunque siano le proposte che si vogliono prospettare dovrebbe essere chiaro, in conclusione, che l’esigenza di un avvicinamento fra l’Europa e le popolazioni che la compongono impone che il problema delle riforme strutturali vada di pari passo con quello delle politiche, in funzione delle quali sono necessarie alcune riforme istituzionali.
Ha ricordato Mario Draghi in occasione del premio De Gasperi (13 settembre 2016) che già nel 1954, all’assemblea della CECA De Gasperi osservava che nel ventennio precedente alla seconda guerra mondiale “sono stati conclusi circa 70 trattati intergovernativi e tutti si sono ridotti a carta straccia quando si è dovuto passare alla loro attuazione”.
Il quadro istituzionale esistente consente già, del resto, alcune riforme strutturali, come il funzionamento degli organi differenziato a seconda delle competenze da esercitare o come la possibile unificazione delle figure del presidente della Commissione europea e del presidente del Consiglio Europeo (v. Antonio Tajani, Corriere della sera, 11 aprile 2017) o come la maggiore integrazione fra organi europei e parlamenti nazionali (v. le proposte avanzate dal Parlamento europeo il 16 febbraio 2017); consente anche una aggregazione fra alcuni Stati nel perseguimento degli obiettivi comuni. Il documento della Commissione europea del 31 maggio 2017 contiene un interessante elenco di misure concrete che potrebbero essere adottate prima delle elezioni europee del 2019 o in tappe successive.
Queste misure, in attesa di quelle più incisive ed emblematiche, potrebbero immediatamente accompagnare un processo di convergenza che dovrebbe realizzarsi sui temi dello sviluppo, dell’occupazione, del fisco, dei bilanci, del sistema bancario, delle politiche sociali, della sicurezza interna ed esterna e dell’immigrazione (v. la proposta di Franco Bassanini).
Questa convergenza presuppone in realtà una volontà politica più forte di quella necessaria per mettere qualche altro carro davanti ai buoi, aspettando che la forma produca poi la sostanza. Anche l’esperienza più recente lo conferma: la carenza di una volontà politica unitaria ha reso finora inutili le aperture già contenute nei Trattati, ha frenato l’unione bancaria, ha impedito una adeguata attuazione del Piano Juncker, non solo non ha risolto i problemi dell’immigrazione ma li ha addirittura creati con le politiche statali incomprensibili verso la Libia.
Il processo di convergenza presuppone quindi, anzitutto, una modifica nei comportamenti superando quella “esasperata concorrenza reciproca” fra Paesi europei (Piketty, 18 giugno 2013) in presenza della quale l’asse franco-tedesco andrebbe visto quanto meno con sospetto, anziché come un motore per l’unificazione europea.
Presuppone, inoltre, che la spinta verso l’unificazione provenga contemporaneamente dalla società civile, superando il provincialismo dei partiti politici, dei sindacati, delle associazioni nazionali, comprese quelle religiose, nonostante le sollecitazioni lungimiranti di Papa Francesco. L’attuale sistema democratico non consente più di “fare l’Italia” senza avere già fatto “gli italiani” e quindi di fare l’Europa senza fare insieme gli europei. I due processi, istituzionale e sociale, devono quanto meno procedere congiuntamente.
Pubblicato su ridiam.it il 5 giugno 2017.