Roma – In pochi se ne sono accorti, almeno al di fuori dei comuni interessati, ma domenica prossima, in Italia, si vota il primo turno delle amministrative per il rinnovo di più di mille consigli comunali: 1.005, per la precisione, che verranno scelti da oltre 9 milioni di elettori. Queste elezioni riguardano 4 capoluoghi di regione (Palermo, Genova, Catanzaro e L’Aquila) e ben 25 capoluoghi di provincia (Alessandria, Asti, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lecce, Lodi, Lucca, Monza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto, Trapani, Verona). Non è poca cosa. Tuttavia, il dibattito sulla legge elettorale in discussione alla Camera – capace perfino di rompere la consuetudine che vuole l’interruzione dei lavori parlamentari nella settimana precedente una chiamata alle urne – ha oscurato quasi del tutto, sui media nazionali, questa campagna per le amministrative.
Il motivo non è la riforma elettorale in sé, che poco appassiona il pubblico con i suoi tecnicismi, pur importanti ma scarsamente comprensibili a chi non è aduso lavorare col bilancino pesa voti e il metro misura collegi. La discussione sul sistema di selezione dei Parlamentari monopolizza l’attenzione perché è strettamente legata a quella sulla durata del governo Gentiloni e lo scioglimento anticipato della legislatura.
Nei giorni passati, il Partito democratico aveva trovato un’intesa con il Movimento 5 stelle, Forza Italia e la Lega Nord su un modello definito alla tedesca, un proporzionale con soglia di sbarramento al 5%. Ieri, però, l’accordo ha vacillato sotto i colpi di poco più di una sessantina di franchi tiratori – secondo molti si tratta di deputati dem spaventati di non trovare posto nelle liste per essere rieletti – e della frenata di Beppe Grillo.
Il leader M5S, dopo una consultazione online tra gli iscritti che aveva dato il via libera all’accordo con Pd, Fi e Lega, ha chiesto e ottenuto di ripetere la votazione online sottoponendo agli attivisti, nel fine settimana, il testo che verrà fuori una volta votati tutti gli emendamenti in Aula a Montecitorio. Il risultato è che fino a martedì, giorno previsto per il voto finale sul testo alla Camera, nessuno avrà la certezza che l’accordo sulla riforma elettorale regga. Anzi, dopo che anche oggi, con voto segreto, è passato un emendamento non rientrante nell’accordo a 4, sembra sempre più difficile che la riforma possa arrivare in porto.
Se l’intesa dovesse saltare, le aspirazioni di chi vuole lo scioglimento anticipato della legislatura, dal segretario dem, Matteo Renzi, a quello della Lega, Matteo Salvini, passando per i pentastellati, si infrangerebbero inesorabilmente contro il veto del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il capo dello Stato, infatti, non è disposto a sciogliere le Camere prima che venga armonizzato il sistema di voto, attualmente un mostro bicefalo nato dalle sforbiciate della Corte costituzionale sul porcellum e sull’italicum.
Se invece l’accordo reggerà, il testo passerà all’esame del Senato con l’obbiettivo di una rapida approvazione per consentire di andare al voto già a settembre. In questo modo sarebbero accontentati la Lega e l’M5S, che chiedono di andare alle urne da mesi, dopo la bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre, e anche Renzi, che vorrebbe evitare di fare la campagna elettorale dopo aver approvato una Legge di bilancio con gli aggiustamenti richiesti dall’Ue. Pure questo, però, non è uno scenario certo. Anche a Palazzo Madama, con ogni probabilità, si dovrà passare per una serie di voti segreti, con il rischio che anche lì entrino in azione dei franchi tiratori, senatori (di ogni colore politico) capaci di affossare l’intesa per conservare qualche mese in più uno scranno sul quale non sono certi di tornare a sedersi.