di Pierluigi Fagan
La Belt and Road Initiative – BRI (che, come acronimo, prende il posto del precedente One Belt One Road – OBOR, detta anche “Vie della Seta”) ha avuto il suo primo summit fondativo. Si tratta di un progetto infrastrutturale (strade, porti, stazioni, ferrovie, reti elettriche-tlc, gasdotti, ecc.) che vorrebbe innervare l’Eurasia, coinvolgendo Medio Oriente ed Africa, per cui sarebbe più giusto dire “Afro-Eurasia”. Il capofila è la Cina che traina l’economia asiatica (presa senza India e Giappone) che pesa un 21% dell’economia mondo.
Assieme all’area russo-centro asiatica, arrivano al 23%. Coinvolgendo Pakistan, Iran e Turchia, si supera il 25%, un quarto dell’economia mondo. Questa rete potenziale di Stati-economie ha dalla sua tre carte importanti: 1) la continuità geografica di aree differenti sia in longitudine, che in latitudine; 2) ricca dotazione di energia (Russia, repubbliche centro-asiatiche, Iran); ma soprattutto 3) ampi margini di sviluppo potenziale. Quest’ultimo punto dice che se oggi questa parte di mondo pesa un 25%, fra dieci anni (o forse prima) potrebbe crescere al 30%, è cioè all’inizio o poco dopo l’inizio di un ciclo di sviluppo potenzialmente lungo. Lo sviluppo porta crescita di potenzialità, cioè essenzialmente “dinamica” e poiché la “dinamica” è molto attraente per tutti, non è detto che anche il Giappone (6,5% economia-mondo) ed area indiana (3,4%), oggi alieni dal progetto, non cambino idea.
Poi c’è l’area del Golfo che vale un altro 2% mentre l’Africa che oggi vale solo il 3% dell’economia mondo è non solo apertamente in target al progetto ma è anche l’area di sviluppo più promettente del pianeta. Volenti o nolenti, i destinatari finali del network sono gli europei, oggi ancora il 22% dell’economia-mondo come UE ma, al di là del “peso quantitativo”, portatori di un ben maggiore peso qualitativo in termini di conoscenze e tecnologie. L’Europa è un’area storicamente in contrazione ma per il progetto in questione questo potrebbe essere un bene in quanto i valori quanti-qualitativi sono ancora – e per un bel tempo rimarranno – “alti”, così che un’Europa divisa, anziana, in contrazione ma ancora ricca e pesante, potrebbe essere partner e non dominus come è stato nella sua trisecolare storia imperial-coloniale.
Su questo progetto (BRI) si possono dire alcune cose. Questo è il quarto progetto-mondo della storia. Il primo invero non fu un progetto ma la risultante di una serie di spinte progressive mosse dalla concorrenza intra-europea che portò olandesi, portoghesi, francesi e britannici a muovere verso est, passando dall’Africa e bypassando gli arabi. Gli europei si presentarono qui e lì, occupando zone, commerciando in forme ineguali, usando spesso la forza militare. Fu quindi più che altro un fenomeno di rapina organizzata alimentato da volontà di potenza. Il secondo fu un progetto che si strutturò nel suo sviluppo, ovvero l’Impero britannico. Questo accentuò il controllo dei territori che nella fase precedente si limitava a porti o tratti di costa per commerciare con l’entroterra, accrebbe l’uso della forza e portò a forme di dominazione istituzionale e finanziaria. Il terzo è l’impero informale americano che superò l’imperialismo formale britannico, addirittura promuovendo la decolonizzazione formale, ma sviluppando tramite World Bank, Fondo monetario internazionale, dollaro, sistema banco-finanza-off shore, network delle multinazionali e network di basi militari, una nuova forma assai sofisticata di controllo e dominio, non direttamente territoriale ma proprio per questo, con più ampie condizioni di possibilità in termini di estensione.
BRI si presenta quindi come la nuova puntata dell’interconnessione planetaria ma con punti di distinguo ben marcati: a) è il primo progetto non occidentale; 2) non è un progetto imperial-coloniale di dominio e controllo promosso da un solo agente; c) non è un progetto a base finanziaria e militare ma spiccatamente commerciale; d) è il primo progetto che si svilupperà in concorrenza ad altri interessi, quelli della potenza egemone che abita su un’isola (il Nord America può essere assimilato ad un’isola per quanto continentale). I progetti o le dinamiche precedenti hanno avuto scontri per l’egemonia come ben sostenuto da Braudel e Arrighi ma non sulla logica del progetto o della dinamica. Si tratta cioè di un “progetto” che ha chiaramente un leader (la Cina) che col suo peso del 15% dell’economia mondo complessiva è certo egemone ma non dominante. Ciò porta alla formazione di una rete di cointeressenze che dovranno portare le entità coinvolte a cooperare. Ad esempio, la forza commerciale, produttiva e finanziaria della Cina non è anche forza militare ed energetica che sono atout russi; i ricchi di spazio non coincidono coi ricchi di fondi finanziari e così i ricchi di materie prime non coincidono con i ricchi di capacità trasformativa; il controllo e la difesa delle reti da stendere dovrà esser fatto dagli attori locali e non da quelli centrali; ogni eccesso di influenza e controllo potrebbe spingere i singoli pezzi della catena a defezionare magari sotto pressione ed inviti più o meno allettanti del concorrente principale (gli USA); la risultante dell’intreccio complessivo dei flussi commerciali dovrà mantenere una convenienza condivisibile, un grave problema locale – trattandosi di reti – diventerà generale e ciò porterà tutti i partner a condividere in simultanea l’interesse del bene comune infrastrutturale; sulla carta – e più ancora nel corso del tempo sul piano concreto – è un progetto-processo, il che dovrebbe portare a forme di cooperazione di più alto livello (proprie istituzioni banco-finanziarie, nuove forme di valuta globale, nuove istituzioni politiche multilaterali, fors’anche inedite collaborazioni militari).
Insomma, alla luce di un’analisi non ideologica, BRI sembra corrispondere in potenza, a quanto affermano i suoi promotori: un progetto cooperativo mondiale che può portare pace e sviluppo, equilibrio dinamico e premessa per una nuova forma di convivenza planetaria. Qui non c’è da essere fiduciosi o diffidenti di quelle che certo rimangono dichiarazioni d’intenti, è l’analisi obiettiva delle linee generali del progetto a dire che o questo riuscirà a mantenere le sue promesse migliori o si disintegrerà ancor prima di compiersi. Se manterrà le sue promesse migliori, risulterà davvero una delle possibili precondizioni strutturali per lo sviluppo di un sistema mondiale complesso ma non caotico.
Sul progetto in quanto tale, ne sappiamo ancora molto poco. Non è ancora perfettamente chiara la cartina logistica delle reti, le stazioni ed i terminali, la natura dei canali e le zone coinvolte appaiono e scompaiono in versioni successive delle versioni pubbliche del piano. Ma, a parte il fatto che poiché il piano ha rilievo geopolitico e non è privo di concorrenti e nemici è ovvio tenere le carte anche un po’ coperte, è anche natura di un progetto cooperativo aspettare che si vada formando la rete dei cooperatori, la dimostrazione concreta dell’impegno di ciascuno per stabilire esattamente cosa fa chi, dove, come e quando. È natura del progetto essere per certi versi “ridondante”. Questa rete deve avere sempre pronte una o due alternative di flusso poiché dai disastri naturali a quelli geopolitici procurati volontariamente o anche involontariamente (rivolte locali), il suo flusso principale est-ovest non si potrà interrompere mai del tutto. Altresì, per evitare l’effetto autostrada che desertifica le antiche reti locali, gli assoni principali dovranno comunque essere centro di più ramificate reti locali aumentando di molto la complessità logistica del progetto, complessità che conosce solo chi è in loco. L’impegno logistico e soprattutto finanziario, quindi, ha solo stime ma è intrinsecamente difficile da stimare perché è un progetto che probabilmente avrà solo alcune parti definite ex ante ma molte più parti legate all’effettiva cooperazione tra partner diversi, cooperazione che potrebbe non accadere dove previsto ma accadere dove prima non si era previsto, secondo flessibile opportunità. Più che un piano di logica ingegneristica quindi è un piano di logica agricola, si semina, si cura, si vede che ne vien fuori, poi si taglia, si corregge, ecc. Abbiamo quindi a che fare con un progetto aperto, flessibile, ridondante la cui arborizzazione dovrà per certi versi seguire una logica di bio-geografia cooperativa per prendere l’esatta forma di ciò che dovrà strutturare.
Quello che invece già sappiamo è che il progetto ha sì capofila la Cina ma assomiglia ad una sorta di versione attiva dei “paesi non allineati”. Questa forma di cooperazione che nacque a Bandung nel 1955 ebbe una storia più passiva che attiva e la BRI sembra essere la sua evoluzione appunto in forma attiva. Questo dice anche dell’enorme rilievo geopolitico del progetto, molti stati di varie dimensioni e della più varia natura e cultura che si mettono assieme per fare una cosa di comune interesse, lasciandosi reciprocamente liberi di esercitare le proprie forme di sovranità. È questa la forma più conforme all’idea del destino multipolare di un mondo a 7,5 miliardi di persone, prossimi 10 miliardi. Il progetto non crea il fenomeno multipolare, lo accompagna. Non è possibile nella logica dei sistemi pensare ad un mondo di 7,5-10 miliardi di persone dominato da una gerarchia di vertice stretto, la reiterazione del “secolo di qualcuno”, semplicemente, non può funzionare “fisicamente”. Poiché quindi, ci piaccia o no, un aggregato così ampio ed eterogeneo formerà spontaneamente i suoi grumi più fitti, i suoi attrattori naturali, BRI sembra essere l’ipoteca di un progetto che tende a tenere in relazione queste parti, secondo il più antico interesse che ha mosso qualsivoglia comunità umana di ogni tempo e luogo: scambiare le eccedenze con le mancanze, ovvero, commerciare. Tolti gli anglosassoni (britannici ed americani) è poi quello che hanno fatto anche veneziani, genovesi, portoghesi, olandesi, arabi, indiani, cinesi e financo giapponesi per lungo tempo, senza per questo che l’uno dominasse l’altro pensando di infine dominare il mondo intero. Anche se era proprio Braudel a pensare che ogni ciclo di potenza iniziava con lo sviluppo dei trasporti, a cui seguiva l’espansione commerciale, a cui seguiva l’intensificazione industriale, a cui seguiva “l’autunno” di potenza segnato dalla falsa primavera dell’egemonia finanziaria.
È lecito domandarsi, allora, se questa è la precondizione di una nuova forma di globalizzazione. Qui sarebbe il caso di definire meglio i termini che usiamo altrimenti rischiamo di nominare nello stesso modo forme non analoghe. Lo scambio tra economie-nazioni è antico quanto le società complesse e forse anche più antico, non è questo che porta alla globalizzazione, lo sono le forme giuridiche-politiche-finanziarie che sovraintendono lo scambio, oltreché la formazione di una partizione densa dell’umanità sul comune pianeta. La globalizzazione WTO (in via di archiviazione) ad esempio, prevede un azzeramento degli attori statali e quindi anche delle loro forme politico-giuridiche e regola lo scambio tra privati secondo regole esclusivamente di libero mercato stante che la valuta di transazione internazionale è il dollaro. Quella che si avrebbe con una ramificata e complessa rete di scambi inter-nazionali secondo, ad esempio, accordi bilaterali, regolati dalla mediazione tra le doppie giurisdizioni ed assecondata da un riferimento ad un paniere di valute, sarebbe internazionalizzazione. Si deve allora anche notare che è in effetti da qualche anno (almeno quattro) che il volume delle transazioni commerciali mondiali ristagna e che stante che la BRI certo ha natura ovvia di supporto allo scambio commerciale, forse non è questa la sua prima ragione d’essere. La BRI potrebbe avere anche un significato economico in quanto tale e senz’altro un significato geopolitico, che i più attenti credono sia la sua prima ragion d’essere.
Il significato economico primo va riferito alla sua realizzazione più che al suo uso. La BRI è una forma di keynesismo planetario in quanto la domanda di tubi, acciaio, ferro, rame, mattoni, cavi, traversine, locomotori, vagoni, navi, sistemi di controllo, ingegneria logistica, banchine, gru, magazzini, uffici, asfalto e cemento dovrebbe essere positivamente stimolata. Così la forza lavoro che dovrà dare forma a tutta questa materia iniziale ma anche in seguito alla manutenzione. Reimpiego del surplus cinese ovviamente, ma anche forme di finanza mista pubblico-privato in capo alle nuove istituzioni banco-finanziarie che si svilupperanno intorno al progetto. Certo, il capitale privato, viziato dagli ultimi anni di redditività geometrica intorno alla finanza algoritmica, faticherà un po’ a vedere l’opportunità di un ritorno a medio-lungo termine e chissà poi quanto incentivante ma altresì non è neanche possibile credere ad altri venti o trenta anni di finanza delle bolle, prima o poi tra Cina, FMI che ha di recente sponsorizzato l’idea di riprendere gli investimenti pubblici infrastrutturali o il piano interno agli USA che chissà se Trump arriverà a poter mettere in essere, i grandi attori dell’economia-mondo potrebbero recintare gli spazi di manovra dell’haute finance e costringerla a tornare ad investire nel mondo del concreto. Già Arrighi ci ammoniva sul fatto che quella tra potere del territorio e potere dei soldi è una dialettica dell’esito ricorsivo se si analizza il cosiddetto capitalismo nella sua lunga durata. Gli investimenti per produrre la rete potrebbero ritornare poi come spesa minuta per la nuova offerta di merci, l’industria dei paesi meno sviluppati potrebbe svilupparsi un po’ di più e così renderli maggiormente strutturati. È chiaro che in questo spazio economico, si dialogherebbe con più valute, almeno inizialmente. Da vedere poi se la richiesta di imprescindibile stabilità finanziaria porterà a panieri che esprimono un nuova moneta di conto o se lo yuan prenderà forma egemone. Inoltre, è ancora tutto da vedere a chi andrà la proprietà di queste infrastrutture e quali saranno i rapporti tra consorzi internazionali che realizzano, quelli che gestiscono e le sovranità territoriali, nonché i pressanti e fondamentali problemi di compatibilità ambientale e di redistribuzione sociale. Se tutto questo mostrerà di poter crescere nel tempo, se le promesse verranno mantenute dalla difficile messa in opera delle intenzioni, questo aspetto del progetto è auto attrattivo: più cresce, più calamita risorse e partner, più cresce. Prima quindi di arrivare a definire le forme dello scambio cooperativo, si formeranno le logiche cooperative per realizzare il progetto.
Ma, forse, il primo motore di questa ambiziosa iniziativa, più che economico o commerciale è geopolitico. La Cina sa di avere bisogno di alleati per proteggere ed alimentare la sua lenta ma inesorabile crescita di volume economico che poi diventerà immancabilmente politico. Questi alleati si trovano in forma naturale nella dinamica del mondo contemporaneo e sono rappresentati dall’avanguardia che il rapporto PWC The World 2050 ha definito gli E7 (emergent) ossia: Brasile, Russia, India, Cina (BRIC), Indonesia, Messico e Turchia. Oggi più o meno alla pari con i G7 come peso sull’economia mondo, nel 2050 varranno più del doppio degli occidentali (PIL a PPP). La dinamica è inesorabile, crescono poderosamente non solo gli E7 ma anche un seguito fatto di Egitto, Nigeria, Pakistan, Malesia, Flippine, Bangladesh, Vietnam; scendono ed a volte crollano tutti gli occidentali che tra dollaro ed euro, IMF, WB, OCSE, BIS, società di rating, grandi fondi ed assicurazioni, Wall Street e City, controllano ancora oggi il gioco economico del mondo. Del resto, se si combinano i dati demografici, con quelli che premiano le economie che hanno ancora ampi e necessari margini di sviluppo, stante che ormai il mondo intero adotta il modo economico occidental-moderno come standard, seppur adattato, non c’è altro possibile risultato. Il tutto prende schematicamente l’aspetto di quella “grande convergenza” in cui c’è un ancien règime calante e decadente ed una pletora di sfidanti che hanno il comune interesse a prenderne alcune posizioni e leve di possibilità, sempre che non si mettano a competere gli uni contro gli altri. Il BRI a guida cinese o cinese-russa, condivisa al momento nella Shanghai Cooperation Organization ma domani in chissà quanti altri forum di cooperazione pronti a nascere, sembra allora proprio la strategia per compattare il fronte degli aspiranti di modo che non si perdano per strada in qualche ottuso egoismo particellare magari incentivato dal divide et impera e del vecchio gioco de “il nemico del mio nemico è mio amico” (e varianti) alimentato dall’universo occidentale in contrazione. L’obiettivo è che il fine comune prevalga su quello particolare e la “squadra” protegga tutti i suoi membri dalle inevitabili ritorsioni ed insidie procurate da chi sta perdendo il dominio e con esso, le comode condizioni di possibilità che sostengono i rispettivi sistemi sociali. BRI è una strategia sottile e lenta, una tela tessuta a più mani per accompagnare delicatamente ma solidamente, la grande convergenza che segnerà la storia planetaria per i prossimi trenta e più anni, anche se il capo-tessitore, chi ha preso l’iniziativa (per quello si chiama “iniziative” e non project), ha chiaramente gli occhi a mandorla.
***
Amanti del discorso metaforico, i cinesi hanno citato a metafora del BRI le anatre cigno selvatiche che in formazione, riescono a volare tra venti e tempeste mantenendo il loro ordine sistemico perché fanno branco e si aiutano a vicenda[1], alternandosi alla guida come i ciclisti in fuga. Ecco allora tornarci alla mente l’ochetta Martina di K. Lorenz, l’oca selvatica[2] che avendo avuto come imprinting della nascita lo studioso austriaco, lo seguì tutta a vita come fosse la sua guida. Chissà se Xi Jinping conosce Lorenz o se quel suo “Come diciamo spesso in Cina, l’inizio è la parte più difficile”, citato nella seconda delle tre parti del suo lungo discorso d’apertura del summit, è solo una sovrapposizione casuale. L’inizio, l’imprinting del progetto è quindi fondamentale[3]. Xi ha riassunto i principi alla base del progetto così: BRI può essere la struttura per la pace, BRI è la precondizione per lo sviluppo e lo sviluppo è la precondizione per l’ordine sociale e politico, BRI porta ad aprirsi ma non a dissolversi, BRI alimenta l’innovazione, ma ricordiamoci che BRI non collega solo economie diverse ma civiltà diverse.
Noi, in Occidente, abbiamo ormai smesso di credere ai discorsi cerimoniali e farà strano che io mi soffermi sui pistolotti retorici del presidente rosso. Ma quando si ha a che fare coi cinesi, consiglio di procedere con cautela nell’applicare copia+incolla le nostre logiche perché loro sono un sistema, certo umano, ma nato, cresciuto e sviluppato parallelamente al nostro e in molti punti ha un diversa genetica, un modo diverso d’intendere le cose, una logica propria, un senso comune diverso. Nei cinque classici confuciani, ad esempio, il Libro delle odi (Shijing 诗经, X – VII secolo a.C.), veniva usato dagli ambasciatori dei vari stati, spesso in lotta tra loro, anche come codice allegorico per dirsi le cose senza dirle direttamente, una sorta di canone diplomatico-poetico per essere franchi o allusivi, ma mai diretti. Le parole pubbliche quindi hanno un peso, quelle dette e quelle non dette, un peso diverso dal dovere retorico che ha da noi il discorso istituzionale pubblico. Consiglio quindi al lettore più attento e curioso di leggerselo tutto il discorso di Xi[4], prima di far scattare l’interpretazione standard del comunista globalista che eccita la Davos neoliberale. Peggio di non capire le cose c’è il pensare di averle capite avendole capite male o per niente.
L’etologo austriaco premio Nobel (1973) scrisse nello stesso anno del premio gli Otto peccati capitali della nostra civiltà (Adelphi, 1973). L’ottagolo lorenziano snocciolava queste insidie: la sovrappopolazione della Terra, la devastazione dell’habitat umano, l’accelerazione di tutte le dinamiche sociali a causa della competizione fra uomini, il bisogno di soddisfazione immediata di tutte le esigenze, primarie o secondarie che siano, il deterioramento genetico causato dalla scomparsa della selezione naturale, la graduale scomparsa di antiche tradizioni culturali, l’indottrinamento favorito dal perfezionamento dei mezzi di comunicazione, la corsa agli armamenti nucleari. Lorenz vedeva, in sostanza, un rischio adattivo per la nostra civiltà, una civiltà che ha teso ad emanciparsi dai vincoli (biologici, geografici, delle risorse, dei limiti naturali e storici) ma che non ha ancora trovato un suo senso positivo, che è scappata da qualcosa ma non ha ancora definito bene dove andare e soprattutto “se” ci può andare. Forse Xi non conosce Lorenz ma per una naturale convergenza del pensiero umano sembra che lui ed i cinesi abbiano risposto ai warnings di Lorenz, abbiamo definito dove “loro” vogliono andare, come e con chi. Cooperazione e competizione sono i due atteggiamenti naturali di ogni specie vivente, chi ha sviluppato più l’una, chi l’altra. La lotteria adattiva ha talvolta premiato l’una strategia o l’altra, tenendo conto che le due non sono solo in alternativa secca ma più spesso sono amalgamate in qualche “giusto mezzo”. Ad oggi, almeno a leggere le cronache, “loro” vantano cooperazione, “noi” solo competizione.
Va detto che il nostro Gentiloni è stato uno dei pochi occidentali ad aver raccolto l’invito, uno dei 29 capi di Stato presenti. Ma l’Italia fa parte anche dell’UE e della NATO e sebbene usa (come del resto tutti gli altri) a farsi anche degli affari in proprio, potrebbe esser frenata a seguire il suo istinto naturale (che è geografico come si evince prendendo una qualsivoglia cartina), poiché il capobranco americano che tra l’altro abita un altro continente decide diversamente. È allora importante che noi tutti si cominci a domandarci da che parte stare, come ci vogliamo presentare a quell’incontro di civiltà che propone Xi ma non solo. L’irruzione del “problema geopolitico” nel dibattito pubblico italiano è ben segnato dal numero in uscita di Limes dove il titolo “A chi serve l’Italia?” può e dovrebbe anche esser letto come “All’Italia chi serve?”, qual è il nostri interesse nazionale oggi e per i prossimi decenni? Chissà che nel nuovo mondo multipolare, per la terra di Marco Polo, non si aprano nuovi-vecchi orizzonti, quegli orizzonti mediterranei cantati da Braudel che suonano così diversi dalla metrica teutonico-anglosassone. Ora è quel momento iniziale, il momento dell’imprinting, lì dove l’ochetta Martina decide che direzione prendere, a quale branco appartenere. Forse c’è politicamente qualcosa di più importante che seguire la mondezza romana o le vicende della tecnocrazia neoliberale europea o l’istant poll su quanto è cafone Trump o il dramma della dissipazione introflessa della fu-sinistra[5] o mettere i cuoricini sui post di che parlano bene di Putin. C’è da decidere cosa noi dovremmo fare per i prossimi trenta e più anni per darci nuove condizioni di possibilità senza le quali dovremo rassegnarci ad un futuro di utenti di like e dislike ininfluenti.
Pubblicato sul blog dell’autore il 19 maggio 2017.
Note
[1] http://www.atimes.com/article/xis-wild-geese-chase-silk-road-gold/.
[2] Quella di Lorenz era una Anser anser mentre quelle citate dai cinesi sono Anser cygnoide, di origine mongola. La logica delle geometria variabile migratoria però è la stessa.
[3] Nella cultura della complessità, analogo (non identico) è il concetto di path dependence.
[5] Può essere interessante per coloro che vogliono ragionare sul diverso modo di sviluppare il marxismo la lettura dell’ultimo D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Laterza, 2017. Nel mio piccolo, convengo con lui sull’insostenibilità dell’atteggiamento eccessivamente idealista del marxismo occidentale e per altro sono i fatti del sempre più esiguo ed anziano suo seguito politico concreto a dimostrare questa insostenibilità.