AGRIGENTO
Al viaggiatore che ci arriva dalla valle dei Templi nell’ora del tramonto, Agrigento appare come un prezioso ricamo di facciate barocche color ocra assediato da un’orda di condomini di dieci piani, dalle tapparelle scolorite e dagli intonaci grigi, piantati in strade troppo strette che nel fitto intreccio urbano diventano voragini di cemento. Davanti a questo florilegio di bruttezza serpeggiano mostruosi e inutili giganteschi viadotti, tutti impraticabili per cedimenti e crolli. Neanche l’autosole ne ha di così alti, con pilastri torreggianti sul fondovalle attonito che sembra chiedersi: “Quale bisogno c’era di scavalcarmi così?”
“È per andare più veloci a Porto Empedocle!” dice qualche indigeno. Nove chilometri separano Agrigento dal suo mare. Bastava anche una comunale ghiaiata per andarci. Ma è vero che se i suoi sessantamila abitanti decidessero di andarci tutti insieme nello stesso momento, anche quattro corsie non basterebbero. Meglio pensare in grande dunque. Soprattutto in brutto. Ma ci dev’essere stato uno scrupolo ecologico nella mente dei costruttori delle strade e dei mostri urbanistici di Agrigento. Perché tutto è stato edificato con cemento povero, con asfalto alleggerito. E così le strade sprofondano e gli intonaci dei condomini si scrostano. Presto saranno frane sulle pendici del monte, riempiranno i canaloni sotto i viadotti e così almeno loro troveranno un senso.
Viadotti di Agrigento! Dove andate accavallati gli uni sopra gli altri? A quali altitudini portate il vostro squallore? Fate una grande tristezza così incompiuti e monchi. Tendete inutilmente le grinfie arrugginite dei vostri scheletri davanti alla montagna dove solo un abbozzo di tunnel è stato scavato. Vi guarda torvo come a dire che di lì non passerete mai. Voi che eravate nati per scavalcare qui adesso marcite colando bave di ruggine. Viadotti di Agrigento, qualcuno mai riuscirà a farvi brillare? Una benefica esplosione che lasci di voi solo qualche cippo da travestire da colonna dorica e mescolare alle rovine della valle dei Templi.
Agrigento è la prima linea del FAI che qui pure combatte con successo e ha salvato la Scala dei Turchi dallo scempio di un ecomostro. Il FAI vigila attento sulla valle dei Templi ed eroicamente è riuscito a portarci un trenino turistico che con meno chiasso e più eleganza dei viadotti impostori collega Porto Empedocle al parco archeologico. Le colonne e i capitelli delle rovine greche si adagiano quasi leggere in un lussureggiante parco silvestre fin nelle propaggini dell’antica piscina della Kolymbetra ora trasformata in giardino botanico. Ma su tutta questa bellezza incombe lassù come un monito il ciarpame edilizio di Agrigento. Generazioni di palazzinari hanno avuto qui carta bianca e la bruttezza dei loro condomini è passata nell’animo di chi ci abita fino a rattristarne i volti e lo sguardo, è colata per le strade in altre scie di calcestruzzo dilagando fino a valle in rotatorie smisurate dai marciapiedi divelti e coperti di erbacce a incanalare strade che non portano da nessuna parte perché un crollo le disperde in sassaie o perché un cordone di plastica a strisce bianche e rosse ne chiude l’accesso senza spiegazione mentre attorno brulica un trionfo di pattume.
Pattume di Agrigento seccato dal sole! Tu voli nel vento, ti impigli nell’erba e sui rami degli alberi. Biancheggiano nei campi le tue bottiglie di plastica come tante gocce di un mare diffuso. Luccicano nel tramonto lattine e vetri rotti e fanno l’occhiolino alle finestre dei palazzoni lassù, accesi come occhi di gigantesche mosche, di orridi insetti che incrostano la città barocca.
Agrigento! Che la cortina dei tuoi palazzoni da poco sia presto polvere e che le tue facciate barocche, ora soffocate dalla loro ombra angusta, ritrovino il sole.