di Marco D’Agostini
Il recente svolgimento delle elezioni presidenziali francesi sembra aver scongiurato, per il momento, l’affermarsi di una maggioranza ostile all’Unione europea in uno degli Stati fondatori delle Comunità europee, tale da prefigurare una sorta di Brexit francese.
Sarebbe tuttavia un grave errore considerare accantonata la questione della distanza tra i cittadini europei – o almeno una larga quota di questi – e le istituzioni dell’Unione e, più in particolare, della generale e montante ostilità nei confronti di quello che è attualmente il più forte elemento sovranazionale dell’architettura istituzionale europea, l’euro, e tutte le strutture e le politiche che ne conseguono, generalmente indicate come governance economica europea.[1]
Perché risultano insoddisfacenti le proposte di riforma finora avanzate in ambito europeo?
Non sembra che le carenze della governance economica europea siano state colmate dagli strumenti straordinari promossi dal presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, come il Piano di investimenti per l’Europa, lanciato dalla Commissione stessa nel 2014, e dalla BCE, come il quantitative easing.
L’Euro Summit del 24 ottobre 2014 aveva inoltre chiesto di proseguire i lavori intesi a sviluppare meccanismi concreti per un coordinamento, una convergenza e una solidarietà più stringenti tra le politiche economiche e ha invitato il presidente della Commissione, in stretta collaborazione con il presidente del Vertice euro, il presidente dell’Eurogruppo e il presidente della Banca centrale europea, a predisporre le prossime misure volte a migliorare la governance economica nella zona euro. Ai lavori del suddetto gruppo è stato associato anche il presidente del Parlamento europeo e il 22 giugno 2015 è stato così presentato il cosiddetto rapporto dei cinque presidenti su “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa”.
A tale documento è seguita la presentazione di un nuovo “pacchetto” di proposte da parte della Commissione europea che, tuttavia, non hanno mancato di suscitare i rilievi del Parlamento europeo il quale, nella risoluzione del 17 dicembre 2015, deplora che il citato pacchetto di misure «non lasci abbastanza spazio per il controllo parlamentare e il dibattito a livello europeo che sono necessari per garantire la responsabilità democratica delle decisioni adottate nel quadro dell’UEM e, di conseguenza, per garantire la titolarità dei cittadini in merito alla governance della zona euro».
Più in generale si ravvisa nella relazione dei cinque presidenti un’occasione mancata perché non affronta la questione centrale dell’istituzione di una politica fiscale anticiclica per l’eurozona mentre si continua a parlare di “rafforzamento della cooperazione”, la quale costituisce un mero monitoraggio della conformità delle politiche di bilancio nazionali con le regole del fiscal compact. Inoltre, si rinvia a un lungo termine non meglio definito la creazione di uno strumento di stabilizzazione macroeconomica, cosicché un maggior grado di convergenza tra gli Stati membri, anziché essere assecondato, diverrà una precondizione rispetto al suddetto meccanismo. La relazione dei cinque presidenti accenna inoltre a un possibile uso del nuovo Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS) in funzione anticiclica ma non affronta la questione di un potenziamento delle risorse proprie dell’Unione.
Non sembrano far fronte completamente ai suddetti rilievi neanche le proposte avanzate dal governo italiano che, da un lato, entrano più nel dettaglio, di quanto non faccia la relazione dei cinque presidenti, del funzionamento dell’istituendo meccanismo di stabilizzazione e con funzioni anticicliche che si propone di finanziare con risorse proprie, e prefigurano, dall’altro, ulteriori strumenti volti a rafforzare la percezione di un’Europa più attenta ai bisogni dei cittadini, come l’istituzione di un regime comune di sicurezza sociale contro la disoccupazione nonché l’introduzione di bond europei. Il contributo italiano, tuttavia, si limita a evocare il tema della supervisione parlamentare sulle decisioni di politica economica senza affrontare nel merito la questione del rafforzamento del controllo parlamentare sulla governance economica.
Tale questione costituisce invece la lacuna centrale, insieme alla mancanza di una vera politica fiscale e anticongiunturale europea, della governance economica dell’Unione ed è rimasta trascurata sia nel Libro bianco sul futuro dell’Europa – Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025, presentato dal presidente della Commissione europea, Juncker, l’1 marzo 2017, sia nella Dichiarazione di Roma adottata dai leader dei 27 Stati membri e del Consiglio europeo, del Parlamento europeo e della Commissione europea in occasione del vertice di Roma del 25 marzo 2017.
Perché non è una soluzione l’uscita dall’euro?
A fronte della timidezza delle citate proposte di riforma del fiscal compact e della governance economica europea, rischiano di rafforzarsi ipotesi più estreme quali l’uscita dall’euro o dall’Unione europea. Tali ipotesi spaziano dalla nota proposta del prof. Giuseppe Guarino di creare una valuta dei paesi mediterranei dell’Unione europea, all’ipotesi di creare due euro, uno del nord e l’altro del sud Europa, fino alle proposte di riformare la Costituzione per poter indire un referendum (che a Costituzione vigente sarebbe inammissibile) per una “Brexit italiana”.
Ma occorre tener conto che, a parte i profili politici, istituzionali e internazionali, in termini economici l’abbandono dell’euro potrebbe non essere un toccasana per l’Italia, come taluni invece prefigurano. La partecipazione ad un’area valutaria comporta infatti una serie di tangibili vantaggi: determina in ogni caso una riduzione dei costi di rischio e transazione per esportatori, importatori e investitori; la valuta comune, inoltre, consente un immediato confronto tra i prodotti offerti da fornitori diversi, che si riflette in una maggiore concorrenza e una riduzione dei prezzi per i consumatori; la moneta unica favorisce, infine, un incremento dei commerci interni nell’area valutaria comune con un conseguente effetto positivo sulla crescita.
Viceversa, l’uscita dall’euro – motivata dalla presunta esigenza di recuperare competitività attraverso la svalutazione della nuova moneta nazionale – comporterebbe molto presumibilmente un default del debito per via di una crescita accelerata della spesa per interessi, nonché una crescita del prezzo delle materie prime e altri beni importati, con un conseguente effetto inflazionistico, un’erosione del potere d’acquisto e, quindi, un sostanziale impoverimento di cittadini a reddito fisso: impiegati, operai, salariati in generale e pensionati. La conseguente fuga all’estero di capitali volta a prevenire il deprezzamento dei risparmi derivante dalla svalutazione del cambio genererebbe poi un’ulteriore spinta verso un innalzamento dei tassi d’interesse che aggraverebbe sia l’indebitamento che il debito pubblico e scoraggerebbe gli investimenti. Le famiglie e gli imprenditori già indebitati in euro per i mutui accesi sulle abitazioni (che secondo alcuni analisti potrebbero svalutarsi fino al 50%) e sugli impianti industriali, si troverebbero poi a dover pagare un debito in euro con un reddito espresso nella valuta locale svalutata, rischiando di perdere la casa o di incorrere nel fallimento e la situazione di insolvenza sarebbe suscettibile di scatenare una nuova ondata di crisi finanziarie, che alla fine verrebbero pagate dai risparmiatori o dai contribuenti. Alla vigilia dell’uscita dall’euro, inoltre, si scatenerebbe una corsa agli sportelli per ritirare i depositi in euro, come avvenuto in Grecia, con conseguenti crisi bancarie, blocco dei risparmi e problemi di ordine pubblico. L’uscita dall’euro costituirebbe infine un disincentivo alla riduzione del CLUP (il costo del lavoro per unità di prodotto), che è la vera chiave della competitività nel lungo periodo.
Dotare la governance europea di un effettivo braccio fiscale e sottoporla al controllo parlamentare. Fare della BCE una FED?
L’alternativa da perseguire appare invece un più efficace raccordo tra cittadini europei e istituzioni europee attraverso una decisa introduzione dei correttivi necessari alla governance economica e al fiscal compact quali la creazione di un vero ministro del tesoro europeo – che possa avvalersi di risorse UE per svolgere un’effettiva politica fiscale europea, anticongiunturale o redistributiva, e non un supercontrollore dei conti nazionali – e il coinvolgimento effettivo di un organismo parlamentare nelle decisioni che riguardano la politica economica.
Una tale decisione è ancora procrastinabile prima della disintegrazione dell’euro?
Le soluzioni tecniche non mancano: la creazione di un meccanismo di stabilizzazione, volto a far fronte agli shock asimmetrici e a sostenere le politiche anticongiunturali, potrebbe basarsi su un idoneo potenziamento del citato FEIS nonché sull’incremento del bilancio comunitario attraverso l’individuazione di nuove risorse proprie, quali una tassa su alcune categorie di transazioni internazionali ovvero l’emissione di eurobond.
Una maggiore capacità dell’Unione in materia di squilibri determinati dall’unione monetaria ne rafforzerebbe la cosiddetta “output legitimacy”, ossia la legittimazione che deriva dall’efficacia delle decisioni assunte.
Per quanto concerne la cosiddetta “input legitimacy”, ovverosia la legittimazione che trae fondamento dal grado di partecipazione degli elettori – in conformità col principio “No taxation without parliamentary representation” – occorre porre al centro di qualsiasi riforma la questione del coinvolgimento effettivo della dimensione parlamentare nei processi decisionali della governance europea. Tale coinvolgimento non può limitarsi a forme più o meno ampie di informazione tramite la moltiplicazione di relazioni, rapporti e audizioni al Parlamento europeo o di conferenze interparlamentari senza alcun potere decisionale, come quella prevista dall’art. 13 del Trattato sul fiscal compact.
Anche in questo caso si tratta di esprimere una volontà politica. Le soluzioni tecniche non mancano, a partire dall’auspicabile integrazione dell’ESM e del Trattato sul fiscal compact nel cosiddetto sistema “comunitario”, cioè un sistema che preveda su tutti i principali atti politici la codecisione del Parlamento europeo e l’ulteriore garanzia data dalla sindacabilità dinanzi alla Corte di giustizia delle decisioni così prese. Occorre però affrontare con coraggio alcuni nodi che sembrano invece venire glissati dai documenti ufficiali, dalla relazione dei cinque presidenti fino al Libro bianco sul futuro dell’Europa: è possibile affidare decisioni così rilevanti per gli Stati che ne sono oggetto ad un Parlamento composto anche dai rappresentanti di Stati che non partecipano all’euro?
La soluzione di affidare ogni potere decisionale al Parlamento europeo non può essere quindi disgiunta da una seria decisione sul futuro dell’euro. Il Parlamento europeo potrà essere l’organismo parlamentare competente per le decisioni di politica economica e monetaria inerenti all’area dell’euro solo se il mancato ingresso nell’euro da parte di alcuni Stati membri verrà formalmente sancito come una fase transitoria. Si tratta di una prospettiva in cui tutti i Paesi membri dell’Unione europea dovranno adottare l’euro come moneta comune e si dovrebbe cessare di adottare in materia economica e finanziaria accordi di diritto internazionale che riguardano l’area euro ma che non rientrano nel diritto comunitario.
Viceversa, se prevarrà la logica dei cerchi concentrici, delle geometrie variabili e delle cooperazioni rafforzate – prospettiva che non sembra essere esclusa dal citato Libro bianco sul futuro dell’Europa e che non è detto che non sia quella più opportuna da perseguire – occorrerà porre la questione di quale sia il Parlamento competente per l’area euro. Se per l’area euro si applicherà la logica della geometria variabile allora arriverà il momento di una scelta coraggiosa come l’applicazione della geometria variabile anche al Parlamento europeo. I precedenti peraltro non mancano. In proposito si ricorda, ad esempio, che l’Unione dell’Europa Occidentale, nata dagli accordi firmati a Parigi il 23 ottobre 1954, prevedeva una propria Assemblea parlamentare composta, ai sensi dell’art. IX del Trattato, «of representatives of the Brussels Treaty Powers to the Consultative Assembly of the Council of Europe».
In alternativa, un semplice rafforzamento dei poteri di coordinamento dei bilanci nazionali, come sembra configurarsi con la relazione dei cinque presidenti e i documenti successivi, ovvero l’introduzione di un bilancio dell’area euro senza un contestuale superamento del deficit di democrazia, rischierebbe solo di accentuare quella generale crisi di fiducia tra Stati creditori e debitori, tra paesi che si ritengono virtuosi e paesi che si sentono penalizzati, nonché, più in generale, tra cittadini e istituzioni europee.
Si potrebbe tuttavia argomentare che non esiste un consenso politico sufficiente per procedere nel senso proposto e che non si raggiungerà mai un accordo tra tutti gli Stati interessati su obiettivi così ambiziosi. Ma cosa accadrebbe se, in luogo della velleitaria minaccia di un’uscita dell’Italia dall’euro, una “Brexit”, emergesse una situazione di illegittimità del Trattato sul fiscal compact?
La Corte di giustizia non è ancora mai stata chiamata a pronunciarsi su una simile istanza ma non è detto che questo non possa avvenire in futuro, ove alcuni Stati si ostinassero a non voler modificare nulla nella sostanza.
Come si potrà mancare di approfondire la legittimità di un meccanismo che costituisce il più importante trasferimento di sovranità all’UE dal Trattato di Maastricht senza tuttavia un vero coinvolgimento decisionale né del Parlamento europeo, né dei Parlamenti nazionali? Tale esigenza di approfondimento risalta in particolare con riferimento all’art. 10, par. 1, del TUE, che prevede che «il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa» e all’art. 6, par. 3, ai sensi del quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali», nonché in considerazione del fatto che, tra tali tradizioni costituzionali – come si è visto nel caso della Germania e della Francia, ma che vale anche per gli altri Stati membri – figura il principio che la democrazia rappresentativa si fonda, tra l’altro, sulla capacità dei Parlamenti di incidere sostanzialmente sulle decisioni di bilancio.
In secondo luogo, non si può escludere che altre Corti costituzionali nazionali intervengano sulla materia, con esiti diversi da quelli delle Corti tedesca e francese, sindacando un meccanismo che, paradossalmente, marginalizza i Parlamenti proprio nella materia che è più intimamente legata alla loro origine e alla nascita delle democrazie rappresentative. In proposito autorevoli interpreti, richiamando la dottrina dei “controlimiti” e le sentenze 183/1973 e 170/1984 della Corte costituzionale, rilevano la possibilità di impugnazione dell’ordine di esecuzione di un Trattato nella parte in cui consente l’immissione nell’ordinamento italiano di norme europee in contrasto con i principi e diritti fondamentali. Al riguardo si ricorda che la citata sentenza n. 183/73, aveva già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, con riferimento ai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale italiano e ai diritti inalienabili della persona umana. È lecito pertanto ipotizzare che la Corte costituzionale possa essere chiamata a sindacare la conformità della legge di ratifica del fiscal compact con i principi e i diritti fondamentali previsti dall’ordinamento costituzionale italiano?
Infine, una proposta innovativa: guardando all’esempio offerto dalla FED degli Stati uniti, dove il Federal Reserve Act, alla Section 2A, contempla tra gli obiettivi dell’azione del Board of Governors (l’organo assimilabile alla nostra SEBC): «the goals of maximum employment, stable prices, and moderate long-term interest rates»,[2] perché non valutare in futuro anche una riforma dello statuto della BCE includendo tra i suoi obiettivi, oltre a quelli già previsti, quali il controllo del tasso di inflazione, il perseguimento della piena occupazione? Forse potrebbe essere proprio questo il terreno di confronto in Europa nei prossimi anni per parlare di politica con la “P” maiuscola!
Note
[1] Per una trattazione più analitica sulla incoerenza dell’architettura della governance economica europea con i principi e i diritti fondamentali definiti nel quadro istituzionale dell’Unione europea si rinvia al saggio di Marco D’Agostini “Diritti fondamentali e governance economica europea”, pubblicato su Democrazia e Sicurezza, Anno VI, n. 3, 2016, in http://www.democraziaesicurezza.it/Saggi/Diritti-fondamentali-e-governance-economica-europea.
[2] Cfr. Federal Reserve Act, Section 2A. Monetary policy objectives, in http://www.federalreserve.gov/aboutthefed/section2a.htm (consultato il 19 giugno 2016).