Bruxelles – Nuova tegola sugli accordi commerciali dell’Unione europea con Paesi terzi: l’accordo di libero scambio con Singapore non può, nella sua forma attuale, essere concluso dall’Unione europea da sola, devono esprimersi anche gli Stati. In particolare per quanto riguarda le regole per la risoluzione delle controversie, che privano gli Stati di poteri che gli sono propri e sui quali dunque è necessaria un’espressione diretta di volontà di cessione.
Lo stabilisce una sentenza della Corte europea di Giustizia, secondo la quale le disposizioni dell’accordo relative agli investimenti esteri diversi da quelli diretti, nonché quelle relative alla risoluzione delle controversie tra investitori e Stati, non rientrano nella competenza esclusiva dell’Unione, “sicché l’accordo non può essere concluso, allo stato attuale, senza la partecipazione degli Stati membri”. La Corte ha accolto le indicazione dell’avvocato generale Eleanor Sharpston, che nel dicembre scorso aveva espresso questo giudizio, citando anche il precedente dell’opposizione della Vallonia all’accordo con il Canada, il Ceta. L’avvocata ammetteva anche che “questo tipo di procedura di ratifica che coinvolge tutti gli Stati membri può creare alcune oggettive difficoltà, ma ciò non può avere un’influenza sulla domanda che è stata posta, cioè chi ha competenza a concludere i trattati”.
Questa sentenza potrà avere effetti anche sui negoziati post Brexit tra Ue e Gran Bretagna, perché a questo punto sembra pacifico che accordi commerciali così ad ampio spettro debbano essere approvati da ogni singolo Stato, il che complicherà la situazione di Londra che dovrà convincere singolarmente i 27 quando si negozierà la auspicabile intesa commerciale per il dopo separazione.
Il 20 settembre 2013 l’Unione europea e Singapore (verso il quale l’Ue esporta per 30 miliardi ed importa per 19) avevano siglato il testo di un accordo di libero scambio, uno delle prime intese bilaterali cosiddette “di nuova generazione”, vale a dire un accordo commerciale che contiene, oltre alle tradizionali disposizioni riguardanti la riduzione dei dazi doganali e degli ostacoli non tariffari nel settore degli scambi di merci e di servizi, anche delle disposizioni in varie materie correlate al commercio, quali la protezione della proprietà intellettuale, gli investimenti, gli appalti pubblici, la concorrenza e lo sviluppo sostenibile.
La Commissione ha presentato alla Corte di giustizia una domanda di parere per stabilire se l’Unione disponga della competenza esclusiva a firmare e a concludere da sola l’accordo previsto. La Commissione e il Parlamento sostengono che la risposta deve essere affermativa. Il Consiglio e i governi di tutti gli Stati membri che hanno presentato osservazioni dinanzi alla Corte (tutti, tranne il Belgio) affermano invece che l’Unione non può concludere l’accordo da sola in quanto alcune parti dell’accordo rientrano in una competenza concorrente dell’Unione e degli Stati membri, o addirittura nella competenza esclusiva degli Stati membri.
Nel suo parere la Corte, dopo aver precisato di esprimersi unicamente sulla questione della competenza esclusiva o meno dell’Unione, e non sulla compatibilità del contenuto dell’accordo con il diritto dell’Unione, dichiara che “l’accordo di libero scambio con Singapore non può, nella sua forma attuale, essere concluso dall’Unione da sola, a motivo del fatto che alcune delle disposizioni previste rientrano nella competenza concorrente dell’Unione e degli Stati membri. Ne consegue che – continuano i magistrati -, allo stato attuale, l’accordo di libero scambio con Singapore può essere concluso soltanto dall’Unione e dagli Stati membri operanti di concerto”.
In particolare, la Corte dichiara che l’Unione gode di una competenza esclusiva per quanto riguarda le parti dell’accordo relative alle seguenti materie:
– l’accesso al mercato dell’Unione e al mercato singaporiano per quanto riguarda le merci e i servizi (ivi compresa la totalità dei servizi di trasporto, nonché nel settore degli appalti pubblici e della produzione di energia a partire da fonti non fossili e sostenibili;
– le disposizioni in materia di protezione degli investimenti esteri diretti di cittadini singaporiani nell’Unione (e viceversa);
– le disposizioni in materia di diritti di proprietà intellettuale;
– le disposizioni intese a contrastare le attività anticoncorrenziali e a disciplinare le concentrazioni, i monopoli e le sovvenzioni;
– le disposizioni in materia di sviluppo sostenibile (la Corte constata che l’obiettivo dello sviluppo sostenibile costituisce ormai parte integrante della politica commerciale comune dell’Unione e che l’accordo previsto “mira a subordinare la liberalizzazione degli scambi commerciali tra l’Unione e Singapore alla condizione che le parti rispettino i loro obblighi internazionali in materia di protezione sociale dei lavoratori e di tutela dell’ambiente”);
– le norme relative allo scambio di informazioni e agli obblighi di notifica, di verifica, di cooperazione, di mediazione, di trasparenza e di risoluzione delle controversie tra le Parti, a meno che tali norme non si riferiscano al settore degli investimenti esteri diversi da quelli diretti (v. infra).
In definitiva, secondo la Corte, sono solo due le parti dell’accordo per le quali l’Unione non gode di una competenza esclusiva, ossia il settore degli investimenti esteri diversi da quelli diretti (investimenti “di portafoglio” effettuati senza l’intenzione di influire sulla gestione e sul controllo di un’impresa) e il regime di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati.
Perché l’Unione sia titolare di una competenza esclusiva nel settore degli investimenti esteri diversi da quelli diretti, “sarebbe necessario – dicono i giudici – che la conclusione dell’accordo sia idonea ad incidere su atti dell’Unione o a modificarne la portata. Poiché tale ipotesi non sussiste, la Corte conclude che l’Unione non dispone di una competenza esclusiva. Essa dispone invece di una competenza concorrente con quella degli Stati membri”. Questa conclusione si estende alle norme relative allo scambio di informazioni e agli obblighi di notifica, di verifica, di cooperazione, di mediazione, di trasparenza e di risoluzione delle controversie tra le Parti in relazione agli investimenti esteri diversi da quelli diretti.
Anche il regime di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati secondo la Corte rientra nella competenza concorrente dell’Unione e degli Stati membri. “Infatti – spiega la sentenza -, un regime siffatto, che sottrae delle controversie alla competenza giurisdizionale degli Stati membri, non può essere instaurato senza il consenso di questi ultimi”.