di Yanis Varoufakis
«È il tuo contro il mio». Così Wolfgang Schäuble, ministro dell’economia tedesco, mi pose la questione durante il nostro primo incontro all’inizio del 2015, riferendosi ai nostri rispettivi mandati democratici. Poco più di due anni dopo, Theresa May sta cercando di ottenere un chiaro mandato democratico, verosimilmente per rafforzare la propria posizione nei negoziati con i power broker europei – compreso Schäuble – e per ottenere il miglior accordo possibile per la Brexit. I commentatori da Bruxelles hanno già cominciato a tracciare parallelismi. «I britannici si sono fatti ingannare dalla falsa convinzione dei greci che il voto domestico ti dia una posizione più solida a Bruxelles. Anche gli altri paesi hanno degli elettori», ha twittato Duncan Robinson, corrispondente da Bruxelles del Financial Times. «Sì» ha risposto con un tweet Miguel Roig, corrispondente da Bruxelles del quotidiano finanziario spagnolo Expansión. «Il grande errore di valutazione che fece Varoufakis fu di ritenere che fosse l’unico nell’Eurogruppo ad avere un mandato democratico».
In verità, Bruxelles è un’area de-democratizzata. Fin dalle origini dell’UE nel 1950, Bruxelles è diventata la sede di una burocrazia cui era stato conferito un potere legislativo senza precedenti, che amministrava un cartello dell’industria pesante. Sebbene l’UE si sia molto evoluta da allora, e abbia acquisito molti degli ornamenti di una confederazione, c’è ancora nella natura della bestia europea la tendenza a trattare la volontà degli elettori come una seccatura che debba essere in qualche modo vanificata. L’organizzazione intergovernativa dell’UE serviva ad assicurarsi che solo in caso di una rara coincidenza storica i mandati democratici sarebbero stati dello stesso colore politico e, quand’anche ciò fosse accaduto, non avrebbero potuto limitare l’esercizio del potere a Bruxelles.
Nel giugno del 2016, la Gran Bretagna ha nel bene o nel male votato per la Brexit. Theresa May, da soft remainer (tiepida europeista, N.d.T.), si è immediatamente trasformata in una hard brexiteer (convinta pro-uscita, N.d.T.). In questo modo sta per diventare preda di un’UE che la ostacolerà e la sconfiggerà, costringendola o ad un’umiliante rinuncia o ad un accordo svantaggioso per tutti.
Si deve prestare particolare attenzione ai corrispondenti da Bruxelles che accusano il primo ministro britannico, senza alcuna prova, di dare eccessiva importanza ad un mandato forte, perché ciò rivela la determinazione dell’establishment europeo a difesa dello status quo, proprio come accadde quando io mi presentai alla porta dell’UE con il mio mandato elettorale.
Quando andai per la prima volta a Bruxelles e a Berlino, in qualità di ministro dell’economia greco appena eletto, ero perfettamente consapevole della divergenza tra i mandati europei. Lo dissi in una conferenza stampa congiunta con Schäuble nel 2015, e promisi che le mie proposte per trovare un accordo tra la Grecia e l’UE avrebbero «tenuto conto dell’interesse non del cittadino medio greco ma del cittadino medio europeo». Alcuni giorni dopo, durante il mio primo discorso all’Eurogruppo dei ministri dell’economia dell’eurozona, affermai: «Dobbiamo rispettare i trattati e i procedimenti già esistenti, senza schiacciare il fragile fiore della democrazia con quel martello che rappresentano dichiarazioni tipo: “le elezioni non cambiano nulla”». Presumo che la May andrà a Bruxelles con la medesima consapevolezza.
Quando Schäuble mi diede il benvenuto con il suo «è il mio mandato contro il tuo», stava rendendo omaggio alla lunga tradizione europea per la quale si ignorano i mandati democratici mentre si afferma di rispettarli. Come tutte le ipotesi pericolose, anche questa si fonda su un’ovvia verità: gli elettori di un paese non possono dare mandato ai loro rappresentanti di imporre ad altri governi condizioni che questi ultimi non hanno il mandato di accettare dal proprio elettorato. Ma, mentre questa è un’ovvietà, il fatto che i funzionari europei e i power broker politici, come Angela Merkel e Schäuble stesso, continuino a ripeterla significa che hanno intenzione di trasformarla surrettiziamente in una teoria diversa: nessun elettore in nessun paese può dare mandato al proprio governo di opporsi a Bruxelles.
Perché, in fondo, tra regole, trattati, procedure, concorrenza, libertà di movimento, terrorismo, ecc., l’unica cosa che davvero terrorizza l’establishment europeo è la democrazia. Parlano in suo nome per esorcizzarla, e la reprimono usando sei ingegnose tattiche, come sta per scoprire Theresa May.
Ti faccio girare a vuoto nell’UE
Con una famosa battuta, Henry Kissinger una volta disse che quando voleva consultare l’Europa non sapeva a chi telefonare. Nel mio caso è stato anche peggio. Ogni tentativo di avviare una discussione seria con Schäuble veniva bloccato dalla sua insistenza che io «andassi a Bruxelles». Una volta a Bruxelles, presto scoprii che la Commissione era così divisa al suo interno da rendere inutile ogni discussione. Nelle conversazioni private, il commissario Moscovici si mostrava immediatamente ed entusiasticamente d’accordo con le mie proposte, ma poi il suo vice nel cosiddetto Gruppo di Lavoro dell’Eurogruppo, Declan Costello, rigettava su due piedi quelle idee.
Gli inesperti saranno perdonati se pensano che farti rimbalzare tra una posizione e l’altra sia dovuto all’incompetenza. Anche se c’è un elemento di verità, la diagnosi non è corretta. Questo modo di operare è un mezzo di controllo che il sistema applica ai governi arroganti. Ad un primo ministro o ad un ministro dell’economia che voglia discutere proposte che l’establishment europeo non gradisce viene semplicemente taciuto il nome della persona con cui parlare o negato il reale numero di telefono da chiamare. Per gli euroburocrati, poi, farti girare a vuoto è necessario per conservare il proprio status e il proprio potere.
Scegliersi gli avversari
Fin dal mio primo Eurogruppo, il suo presidente, il ministro dell’economia olandese Jeroen Dijsselbloem, cominciò un’intensa campagna con lo scopo di bypassarmi completamente. Telefonava direttamente ad Alexis Tsipras, il mio primo ministro, e andava addirittura a trovarlo nella sua camera d’albergo a Bruxelles. Alludendo al fatto che avrebbe assunto una posizione più morbida se Tsipras gli avesse evitato di aver a che fare con me, Dijsselbloem riuscì a indebolire la mia posizione nell’Eurogruppo, a scapito, prima di tutto, dello stesso Tsipras.
La routine dell’inno nazionale svedese
Ritenendo che le buone idee stimolino un dialogo proficuo e aiutino ad uscire dall’impasse, io e il mio gruppo lavoravamo sodo per presentare delle proposte fondate su un serio calcolo econometrico e solide analisi economiche. Una volta testate con alcune delle maggiori autorità nel campo, da Wall Street alla City ad accademici di altissimo livello, le portavo ai creditori della Grecia a Bruxelles, Berlino e Francoforte. Poi mi appoggiavo allo schienale della sedia e, di solito, mi si parava davanti una sinfonia di sguardi fissi. Era come se non avessi parlato, come se non avessero di fronte a loro alcun documento. Era chiaro dal linguaggio del corpo che negavano anche l’esistenza stessa dei fogli di carta che avevo messo loro difronte. Le loro risposte, quando c’erano, erano completamente scollegate da ciò che avevo appena detto. Avrei anche potuto stare lì a cantare l’inno nazionale svedese. Non avrebbe fatto alcuna differenza.
Lo stratagemma di Penelope
Le tattiche dilatorie sono sempre usate dalla parte che considera lo scorrere del tempo un alleato. Nell’Odissea di Omero, la fedele moglie di Ulisse, Penelope, durante l’assenza del marito, respinge i suoi aggressivi pretendenti dicendo che avrebbe annunciato il nome di chi avrebbe sposato dopo aver finito di tessere il sudario per Laerte, il padre di Ulisse. Di giorno tesseva incessantemente e di notte disfaceva il lavoro fatto sfilandolo.
Nei miei negoziati a Bruxelles, lo stratagemma di Penelope usato dall’UE consisteva, in primo luogo, in infinite richieste di dati, di missioni di accertamento dei fatti ad Atene, di informazioni riguardo ad ogni conto bancario aperto a nome di ogni organizzazione o azienda pubblica. E una volta ottenuti i dati, come la brava Penelope, trascorrevano la notte a disfare i fogli di lavoro che avevano compilato durante il giorno.
Il rovesciamento della verità
Oltre ad utilizzare la tattica dell’inno nazionale svedese e lo stratagemma di Penelope, l’establishment di Bruxelles, coinvolgendo anche snodi chiave nella rete dei media europei, usava tweet, fughe di notizie e campagne di disinformazione per spargere la voce che ero io quello che perdeva tempo, perché arrivavo alle riunioni a mani vuote, senza nessuna proposta o con proposte prive di quantificazioni e piene di vuota retorica ideologica.
Il sequenziamento
Il prerequisito per la ripresa della Grecia era allora, e rimane oggi, una significativa cancellazione del debito. Senza cancellazione del debito per noi non c’era futuro. Io avevo quindi il mandato di negoziare una ragionevole ristrutturazione del debito. Se l’UE era pronta a farlo, per potersi riprendere la maggior parte dei suoi soldi, dal canto mio io ero sinceramente pronto a scendere a compromessi. Ma tutto ciò avrebbe richiesto un accordo globale. Ma no, Bruxelles e Berlino pretendevano che prima io accettassi le loro proposte e solo più tardi, molto più tardi, avremmo potuto cominciare i negoziati sulla cancellazione del debito. Il netto rifiuto di negoziare contemporaneamente entrambe le richieste è certamente il colossale ostacolo che attende May, nel momento in cui cercherà di trovare un compromesso sui termini del divorzio in cambio di accordi di libero scambio a lungo termine.
Cosa può fare dunque Theresa May?
L’unico modo in cui May può assicurare un buon accordo alla Gran Bretagna è diffondere le tattiche dilatorie dell’UE, mostrandosi al contempo rispettosa della tesi più solida dei sostenitori della Brexit, cioè l’assoluta necessità di ripristinare la sovranità della Camera dei Comuni. E l’unico modo per farlo è evitare tutte le negoziazioni e richiedere a Bruxelles un accordo standard, simile a quello stipulato con la Norvegia, per un periodo di, mettiamo, sette anni.
I benefici che porterebbe una tale richiesta sono duplici: in primo luogo, gli eurocrati e gli eurofili non avrebbero motivo di negare alla Gran Bretagna un accordo simile. (Inoltre, Schäuble, la Merkel ed altri tirerebbero un sospiro di sollievo sapendo di lasciare la patata bollente ai loro successori nei successivi sette anni). In secondo luogo, restituirebbe sovranità alla Camera dei Comuni in quanto le darebbe la possibilità di discutere e decidere sulla relazione a lungo termine tra la Gran Bretagna e l’Europa, avendo un tempo congruo a disposizione, e senza lo stress del tempo che scorre.
Il fatto che May abbia optato per negoziazioni che immediatamente attiveranno i più bassi istinti e le peggiori tattiche dell’UE per futili ragioni di politica interna al partito, che in ultima analisi non hanno nulla a che vedere con il suo potere né con l’accordo ottimale per la Gran Bretagna, significa solo una cosa: non merita il mandato che Bruxelles vuole diligentemente neutralizzare.
Pubblicato sul Guardian il 3 maggio 2017. Traduzione di Selena Andrisani, collettivo traduttori in italiano DiEM25.