La stazione di Bologna
Il set della canzone “La locomotiva” di Guccini, il luogo eroico e martire da cui tutti noi italiani almeno una volta nella vita siamo partiti oggi è diventato un non-luogo, un conglomerato di opere incompiute dove il mancato centro commerciale ha una provvisoria supremazia sulla mancata stazione ferroviaria e diventa quasi accessorio che un treno passi da lí, anzi finisce per dare fastidio tanto stona con il paesaggio di pensiline vecchie ma non antiche, sfilate di business lounge disabitate e glaciali bar dai panini tutti uguali.
Il brutto comincia subito sul piazzale dove dentro la mancata fontana piena d’erba campeggiano quattro pali arrugginiti di bandiere che furono e attorno si affastellano l’una sull’altra fermate di autobus ostili, ben diversi dal “giovane autobus dall’aspetto sociale, dono di un’amministrazione niente male” che Lucio Dalla cantava nella canzone del Cucciolo Alfredo. Questi non portano da nessuna parte, inseguono invece, e sembrano voler schiacciare ogni pedone che tenta di attraversare il piazzale. Il brutto prosegue e s’addensa all’interno della stazione dove la biglietteria imbandierata di striscioni pubblicitari sembra il traguardo di una corsa podistica, bugigattoli angusti dalle vetrine cariche di scritte vendono di tutto, dagli assorbenti alle liquirizie, dall’amuchina alle patatine gusto pancetta, dalle ricariche telefoniche ai portachiavi con l’immagine di Padre Pio e ad ogni angolo della sala brilla muto un monitor. Brilla, si spegne e balugina sciorinando pubblicità senza costrutto. Solo e ignorato sull’alto muro lampeggia triste il grande tabellone delle partenze come a ricordare che questa sì, sarebbe una stazione. Lui che una volta frullava con dita leggere i tasselli di destinazioni e orari assieme a ritardi dai centenari minuti ora ci guarda con luci gialle ed ebeti, senza più vederci.
Divagano i binari est e ovest, un tempo rifugio di locali dalle destinazioni impervie, in un’accozzaglia di negozi, per lo più di biancheria intima per mannequin o di moda per gioventù estrema e una torva banca di quelle a rischio bancarotta occupa il posto degli antichi gabinetti pubblici dalla lunga schiera di urinatoi. Ah, gabinetti della stazione di Bologna! Quanto freddo patimmo nelle vostre celle di ceramica sbreccata, senza carta igienica e con pochi giornali di dura carta patinata nelle lunghe attese di inarrivabili treni che si erano persi in lontananze incolmabili! Quante pisciate torrenziali dentro di voi scaricammo dopo averle trattenute per ore interminabili nelle discoteche, nelle scorribande in automobile, negli atri del distretto militare a presentare il rinvio, nelle goliardate via per la città che ci piaceva tanto usurpare con il nostro animo provinciale! Ah, cessi della stazione di Bologna che adesso mi chiedete un euro per quel che un tempo accettavate come un dono e frapponete fra me e voi una sbarra d’acciaio, come se non ci conoscessimo! Ah, cessi della stazione di Bologna dove si davano appuntamento i pederasti e invece trovavano noi, inconsapevoli e sorpresi d’essere oggetto di attenzioni da vecchi bavosi e barboni puzzolenti, da preti viziosi, da facchini perversi, da insospettabili commilitoni, da gigolo frequentatori dell’albergo diurno! Oggiasettici, vi spruzzate da soli disinfettanti e altre varechine da poco, come se aveste paura di restare contaminati. Siete brutti più di allora perché ora non avete che uno scopo, quello, e null’altro uso vi resta per riscattarvi.
Ma il brutto non smette di incalzare il viaggiatore e si addensa ora nei sottopassaggi, che sembrano piastrellati con resti di magazzino e invece di passare sotto per riemergere altrove sprofondano e basta nelle voragini dell’alta velocità. Una stazione alla rovescia, uno snodo ferroviario della profondità, forse una Bologna all’incontrario che mentre in centro ostenta le sue torri e tende con le loro punte al cielo per venire fuori da questa pianura ipnotica, qui sui binari dell’alta velocità pianta torri che sono cunicoli, scava profondità inaudite, quasi volesse seppellirsi e morire, come un proteo terrificato dalla luce che vuole solo buio e freddo e non essere mai più visto al mondo. Ah, stazione di Bologna, tu che eri una piazza aperta da cui si entrava e usciva inseguiti dal vento, oggi sei recintata da alte grate grigie come quelle di un penitenziario.
Anche qui, a migliaia di chilometri da Lampedusa, partire e arrivare è diventato un gesto osceno che si consuma di nascosto, sotto terra, e per farlo bisogna esibire un documento, come se si andasse a vedere un film pornografico. Ah! Stazione di Bologna, non voglio mai più partire da qui! Che tu scompaia dall’orario ferroviario, che la terra finisca di inghiottirti e di te non resti che un binario morto e coperto di erbacce.