di Giacomo Pellini
Quindici anni fa, il 4 febbraio del 2002, nei pressi della città di Khost in Afghanistan, un drone americano lanciava un missile Hellfire contro tre uomini, uccidendoli. Si tratta del primo attacco effettuato da un velivolo a pilotaggio remoto. Il drone era sulle tracce di Bin Laden, ma con ogni probabilità le vittime non erano terroristi, ma uomini intenti a recuperare metallo.
Quel giorno cominciò l’epoca dei droni militari. Una tecnologia spesso poco conosciuta ai più – in Italia solo il 40% delle persone ne è a conoscenza – ma incrementata negli anni.
L’ultimo rapporto dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo (IRIAD), dal titolo “Droni militari: proliferazione o controllo?”, analizza proprio lo stato dell’arte degli aeromobili a pilotaggio remoto (APR), più noti, appunto, come droni. E il focus è soprattutto sul loro uso militare: il dossier mostra come il mercato dei droni sia in continua crescita. Un affare che non è destinato ad arrestarsi: secondo l’IRIAD si passerà da «un valore di 4861 milioni di dollari nel 2012 a 9801 nel 2016 – di cui 6539 nel settore militare».
Una tecnologia che deve la propria fortuna al moltiplicarsi delle guerre globali, «asimmetriche e a bassa intensità». E in particolare all’attacco terroristico alle Twin Towers: all’indomani dell’11 settembre 2001, quando l’amministrazione Bush decise di inaugurare la “guerra al terrore” in risposta agli attentati di al-Qaeda, l’uso massiccio di droni militari è divenuto sempre più frequente. Una delle pratiche più utilizzate è quella del targeted killing, le esecuzioni senza giusto processo di terroristi o presunti tali in contesti di guerra non convenzionale o di non guerra attraverso attacchi mirati dal cielo.
Ma le esecuzioni sono veramente così mirate e gli APR così “intelligenti”? Il carattere della guerra globale implica un modus operandi completamente nuovo nei conflitti: da una parte l’uso della forza non è più confinato a un luogo specifico, ma si espande ovunque; dall’altra la mancanza di un nemico vero e proprio – sempre più spesso gli Stati si trovano a dover combattere non contro altri Stati, ma con «network internazionali o movimenti irregolari» – rende sempre più difficile l’individuazione di target veri e propri.
E, secondo il rapporto, tra i “danni collaterali” dell’uso dei droni militari c’è proprio il costo in termini di vite civili – comunque difficile da quantificare. Lo studio riporta alcune statistiche ufficiali del governo statunitense: tra il gennaio 2009 e il dicembre 2015, secondo la Casa Bianca 473 attacchi via drone hanno ucciso tra Afghanistan, Siria e Iraq oltre 2.500 terroristi, causando tra 64 e 116 “vittime collaterali”.
Ma sono dati molto ottimistici, se confrontati ad altre ricerche. Secondo il Bureau of Investigative Journalism, un’organizzazione indipendente, il totale delle vittime civili in Afghanistan, Pakistan Yemen e Somalia oscilla, al dicembre 2016, tra le 5.653 e le 8.310 vittime civili, tra il 10 e il 13% dei morti totali, nonostante – conclude l’istituto – «la difficoltà ad avere dati certi».
Una delle poche certezze è la morte innocente di un nostro connazionale: si tratta di Giovanni Lo Porto, un cooperante italiano da 3 anni nelle mani di al-Qaeda, ucciso in Pakistan nel gennaio del 2015 da un drone americano dopo un blitz contro i terroristi della formazione radicale islamica. Subito dopo l’accaduto Obama – durante la cui presidenza l’uso degli APR ha conosciuto immensa fortuna – si scusò dell’“errore”. Ma intanto la famiglia di Giovanni chiede ancora giustizia.
Anche il nostro paese ha una storia decennale nell’uso dei droni. Dall’Afghanistan all’Iraq, dal Kosovo alla Libia, e in tutte le altre missioni internazionali in cui è stata coinvolta, l’Italia ha fatto un massiccio uso di droni di tipo Predator e Reaper, commenta la ricerca. Tuttavia, precisa l’IRIAD, non si parla di droni militari, ma ad uso di sorveglianza e ricognizione: solo il Reaper può essere armato, ma il Belpaese non dispone ancora del software specifico – di produzione statunitense – che ne permetterebbe la conversione.
Nello specifico, il programma è stato richiesto nel lontano 2011 dal governo italiano. Ma non è ancora stato ottenuto. Tuttavia, continua il rapporto, l’Italia nel 2015 ha reiterato la richiesta per il software ottenendo via libera dal governo americano. Oggi il Congresso non si è espresso, e il principio di vendita dovrebbe essere in corso, ma non si conoscono ancora i dettagli del piano, anche se, secondo un ex capo di Stato maggiore della Difesa, i droni armati dovrebbero entrare in dotazione alle forze armate italiane entro due anni.
Tuttavia, i droni armati sono già presenti sul nostro territorio, anche se, di fatto, non appartengono al governo italiano: sono situati nella base statunitense di Sigonella, soprannominata l’“hub del mediterraneo”. La ricerca cita un accordo del 2016 tra Italia e Stati Uniti, che consente l’impiego di Reaper armati in partenza dalla base verso la Libia.
Un accordo, continua l’IRIAD, «mai annunciato ufficialmente, né discusso dal Parlamento italiano»: un vero e proprio patto segreto trapelato dalle pagine del Wall Street Journal. Dopo la diffusione dell’accordo da parte del quotidiano, l’Italia ne ha ridefinito i termini: le missioni devono essere difensive e ricevere ogni volta un nulla osta ad hoc da parte delle autorità italiane. Finora non sappiamo se le missioni siano mai state autorizzate, ma, conclude lo studio, secondo il sito The Avionist tra gli attacchi contro i combattenti affiliati all’ISIS nell’agosto 2016 ve ne sarebbe anche uno di un Reaper partito da Sigonella.
E l’Europa? Lo studio dimostra come la Commissione europea abbia finanziato, negli ultimi anni, l’industria dei droni attraverso programmi per la ricerca, come l’Horizon 2020 e il Settimo programma quadro attraverso i programmi dual use civili/militari – i trattati europei vietano i finanziamenti alle tecnologie militari. Lo studio cita i dati dell’osservatorio indipendente Statewatch, secondo il quale l’UE ha concesso 315 milioni di euro di finanziamenti ai progetti sui droni.
Ma se, da una parte l’affaire dei droni non si arresta, dall’altra alcun istituti demoscopici (Pew Research, German Marshall Fund) rilevano una «diffusa opposizione all’uso dei droni militari». Il rapporto cita in particolare un sondaggio del Pew Center: su 44 paesi analizzati nel 2014, 39 sono contrari all’impiego degli APR armati statunitensi nei teatri di guerra. Solo in USA e Israele oltre la metà delle persone è favorevole: un consenso che è andato diminuendo anche negli stessi Stati Uniti, dal 68% di favorevoli nel 2011 al 58% nel 2015. Nettamente contraria l’opinione pubblica anche in Germania (67%), Francia (72%), Regno Unito (59%), Russia (78%) e Cina (52%).
Per il nostro paese, invece, non esistono dati ufficiali, ma da alcune rilevazioni emerge come il 55% degli italiani sia nettamente contrario all’uso dei killer robot. Ma nonostante la loro scarsa popolarità, il nostro Paese potrebbe spesso dotarsi dell’uso di droni militari.
E se l’affaire segreto andasse in porto, l’Italia sarebbe il terzo paese della NATO – dopo USA e Gran Bretagna – a dotarsi di questa tecnologia. Perché, si sa, l’Italia, è sempre in prima linea.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 20 aprile 2017.