di Silvia Pennazzi
Ho deciso di leggere questo libro, e ammetto di averlo fatto voracemente, con l’obiettivo di confrontarmi con una delle voci più autorevoli dell’altreuropeismo, per provare a comprendere cosa muove chi la pensa similmente a me su tante cose, ma sull’Unione europea proprio no. Ho scelto l’ultimo libro di Varoufakis perché non posso negare di aver provato un grande entusiasmo durante il suo braccio di ferro del 2015.
Premetto che non ho modo di isolare il contributo da Varoufakis da quello di Marsili, per cui li tratterò come esponenti dello stesso pensiero, quello espresso globalmente nel libro.
Il primo capitolo si legge che è un piacere: un’analisi incontestabile dello stato presente dell’Unione, con tanto di rapidi ma condivisibili riferimenti al tema della sovranità monetaria e della necessità di rimettere l’economia al centro del discorso politico.
Il secondo capitolo si apre con una trattazione di quelli che sono stati i frutti del pensiero unico sulle istituzioni europee e sugli scenari nazionali. Tutto incontrovertibile. Il discorso fila liscio finché sul tema della moneta unica si assiste al primo coitus interruptus del libro.
«C’è una grossa differenza fra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che adesso, una volta dentro, dovremmo uscirne. L’architettura dell’euro è sicuramente catastrofica, ma…» e prosegue con una metafora tratta da Indiana Jones che pone su un piano assolutamente dogmatico l’impossibilità di tornare ad una moneta nazionale, vanificando in qualche misura l’analisi precedente fatta.
Il terzo capitolo tratta del punto di rottura cui siamo arrivati e definisce, direi anche in antitesi col titolo del libro, la possibilità di un populismo diverso da quello nazionalista delle destre xenofobe che purtroppo è andato rafforzandosi progressivamente, prima nei paesi dell’est europeo, poi anche negli altri.
I due capitoli seguenti sono finalmente dedicati alle proposte per uscire da questa situazione definita insostenibile e per superare questo modello di Unione che si ritiene comunque destinato ad un fallimento a breve, in un modo o in un altro. Tutte le proposte che vengono fatte, per quanto in sé pienamente condivisibili, risultano però piuttosto deboli di fronte alla gravità della situazione presentata. E, direi, anche alla luce dell’esperienza greca del 2015, e non solo di quella.
Muovendo dal successo ottenuto da Podemos in molti comuni spagnoli, viene proposto un modello di partecipazione cittadina che miri alla sovranità popolare nei limiti delle comunità e quindi di gestione partecipativa delle emergenze causate dall’austerity, di tutte le decisioni riguardanti la comunità, finanche delle imprese di interesse collettivo. Il fatto che tutto ciò risulti assolutamente incompatibile con il funzionamento dell’Unione, fondato sul primato del libero mercato sopra ogni altro interesse, viene risolto proponendo una lotta da condurre tramite la disobbedienza, sempre in analogia con quanto realizzato da alcuni comuni spagnoli. Si ammette in realtà che il sistema sia troppo marcio ormai per poter essere cambiato da dentro, per questo la forma di disobbedienza proposta viene descritta come una lotta combattuta contemporaneamente fuori e dentro l’Unione e i suoi schemi.
Questa strategia prende le mosse dalla seguente considerazione: come le élite hanno ad oggi prevalso forzando e violando alcune norme e procedure formali (dall’istituzione della troika al fiscal compact) o “arruolando combattenti stranieri” (come gli attacchi speculativi sul debito italiano per condurre il governo Berlusconi a dimettersi e passare la staffetta all’inviato dell’Unione Mario Monti).
Inoltre, come ulteriore mezzo di lotta, si invoca il dissenso da parte del Parlamento europeo, che ha sì pochi poteri, ma avrebbe ad esempio facoltà di bocciare il bilancio dell’Unione, o il dissenso dei governi nazionali, che potrebbero rifiutarsi di ratificare alcune direttive (ad esempio il fiscal compact). Ma qui siamo in un vicolo cieco perché sappiamo che i ricatti delle istituzioni europee insieme a quelli dei mercati avrebbero il potere di mettere immediatamente fuori gioco un tale governo. Lo abbiamo visto in Grecia e lo abbiamo visto anche in Italia. Insomma, tutto molto bello, ma l’efficacia è discutibile e smentita dai fatti.
Nell’ultimo capitolo la proposta strategica si arricchisce della necessità di accompagnare l’azione di disobbedienza locale/nazionale (forse anche a loro sembra tutto sommato una proposta debole e insufficiente) allo sforzo per unire le forze a livello transazionale, costruendo partiti (veri) europei, ma anche unendo le forze sindacali, quelle delle associazioni e delle realtà locali. Insomma si propone di far nascere gramscianamente il popolo europeo (attualmente inesistente, per stessa ammissione degli autori) dalla condivisione di una lotta, di un nemico, di aspirazioni comuni. Tutto molto bello e nobile, ma a leggere quest’ultimo capitolo si sente proprio come il tono si sia fatto tutto teorico e la narrazione è quella di una storia che, nonostante qualche incidentale passetto indietro, alla fine non può che tendere al progresso e alla maggior felicità dell’uomo. Si prefigura un futuro ideale in cui la felicità di tutti sia un diritto senza descrivere i passi concreti con cui costruirla questa felicità, cui, alla fine, sembrano non credere neanche gli autori.
Yanis Varoufakis e Lorenzo Marsili, Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Laterza, 2017.