di Gustavo Piga
Quattro candidati presidenti hanno dominato la scena elettorale francese, raccogliendo più dell’80% dell’elettorato in parti quasi uguali. Piattaforme diverse capaci di attrarre ognuna di esse una consistente parte dei cittadini francesi, dividendosi addirittura tra loro votanti fino a poco tempo fa uniti all’interno di un partito coeso a livello ideologico. Che cosa succede?
Ci sono ovviamente molti modi di comprendere tale segmentazione del mercato del consenso politico, qui se ne proporrà una che accomuna in maniera crescente il panorama politico europeo, basato sul contesto costituzionale fiscale che permea le vite quotidiane di tanti cittadini del continente e che a fine anno dovrà essere confermato, riformato o eliminato con una decisione del Consiglio europeo.
La politica fiscale europea si traduce a livello nazionale in documenti pluriennali pressoché analoghi in ogni paese – in Italia è ora chiamato DEF, Documento di Economia e Finanza – che vengono pubblicati nella primavera di ogni anno e che vincolano non solo la legge di bilancio dell’anno a venire, ma anche i percorsi a quattro anni di deficit e debito pubblico. Lo scopo di questi documenti è in principio non solo utile, ma essenziale: ancorano le aspettative degli operatori, famiglie e imprese, che faranno le loro scelte economiche anche sulla base di quanto il governo di turno promette, quanto a tasse e spesa pubblica, per un orizzonte di medio periodo. L’impatto del DEF è dunque rilevante per il benessere dei cittadini e non dovrebbe sorprendere che implicitamente sia oggetto di costante dibattito tra di essi e che condizioni le piattaforme dei partiti che questi cittadini devono rappresentare.
L’accordo intergovernativo attualmente vigente nell’Unione Europea, che porta la data di cinque anni fa, è chiamato fiscal compact. Esso richiede a tutti i governi degli Stati membri, senza se e senza ma, che i documenti economico-finanziari prevedano una convergenza verso il bilancio in pareggio nell’arco appunto di tre anni, tramite una combinazione di riduzione di spese pubbliche e aumenti di tassazione. Ma, in realtà, all’interno di ogni paese ci si scontra politicamente su quattro possibili orientamenti. Quattro, esattamente come il numero di candidati francesi che hanno appena dominato la scena del primo turno elettorale per la Presidenza della Repubblica.
Di questi quattro possibili DEF, di questi quattro modi di orientare la politica economica nazionale nel medio periodo, due li potremmo chiamare “finti DEF” e due “veri DEF”.
Un primo DEF finto è quello che ha dominato costantemente la scena politica italiana, sempre rappresentato dagli ultimi governi in carica, ed è consistito nel rinviare ogni anno il raggiungimento richiesto del bilancio in pareggio a tre anni dalla data del DEF stesso. Anche il premier Gentiloni, che ha invece evitato questo tradizionale rinvio, promettendo che il bilancio sarebbe stato messo in pari a due e non più a tre anni lo ha fatto probabilmente ben sapendo che la patata bollente di non rispettare quanto promesso sarebbe caduta su un nuovo Governo l’anno prossimo. C’è chi sostiene che questa politica gattopardesca (detta anche della “flessibilità”) sia utile, per evitare gli effetti deleteri di una eccessiva austerità in un momento di difficoltà. Falso. Cittadini e imprese, a fronte di DEF che promettono manovre di 40 miliardi in due anni (tanto ci vorrebbe per raggiungere il pareggio di bilancio) non saranno mai rassicurati da chi li tranquillizza garantendogli che quelle manovre mai avverranno: essi si nutrono di certezze e dunque, in assenza di queste, rinvieranno consumi e investimenti, condannando produzione e occupazione alla stagnazione. I partiti che propongono questi DEF sono destinati a convincere sempre meno gli elettorati della bontà della loro proposta, come la Francia dimostra.
Un secondo DEF finto è quello di chi si ribella all’Europa, rifiutandola, e chiedendo un ritorno alla valuta e alla sovranità nazionali. Benché sinora costoro non siano mai arrivati al governo e, dunque, mai abbiano scritto formalmente un DEF, è ben noto come lo scriverebbero: argomentando che, tramite l’uscita dall’euro, a 3-4 anni PIL e occupazione s’impennerebbero verso l’alto, generando benessere e stabilità nei conti pubblici. Un DEF finto anche questo dunque, perché scritto sulla sabbia, cancellato dall’onda globale che cresce e che condanna i paesucoli piccoli all’oblio, cancellati dalla tavola delle decisioni globali, dove solo l’Europa potrebbe sedere da pari a pari con Russia, Cina e Stati Uniti. A quella tavola il paese Italia (o Francia) sarebbe sul menù, niente di più. Eppure una quota non piccola di elettori rivolgono la loro attenzione a questa proposta: tanto più pericolosa dato che l’unico modo di scoprire il suo inganno sarebbe di sperimentarla.
Vi sono poi due DEF veri. Il primo – che Gentiloni ha abbracciato solo per ragioni di tattica politica – è quello effettivamente richiesto dall’Unione Europea: una vera convergenza in due anni verso il bilancio in pareggio con, per esempio per l’Italia, 40 miliardi di euro di maggiori tasse o di minori spese, tipicamente tagliate o a casaccio o fatte ricadere su quella componente sempre più facile da eliminare, la più rilevante: gli investimenti pubblici. In un contesto come quello italiano, ma anche di altri Stati membri, adottare una tale politica sarebbe un harakiri di proporzioni gigantesche, perché porterebbe ad abbattere produzione e occupazione. Ma tant’è. È innegabile come una parte degli elettori, tipicamente quella più abbiente e più al riparo dai tagli sociali perché capace di sopperire autonomamente ai propri bisogni di sicurezza economica e sociale, sia attratta da questa piattaforma DEF. Senza capire, miopemente, come essa conduca alla fine di quella Europa che tanto potrebbe garantire a tutti se fosse finalmente capace di mostrare un volto nuovo e più solidale verso chi soffre.
Infatti vi è un quarto DEF, ancora impossibile da veder stampato e adottato, ma vero perché credibile. È il DEF di un’Europa dell’euro diversa da quella che abbiamo finora conosciuto. È un DEF che, ridando ottimismo a medio termine a chi soffre maggiormente, sarebbe capace di rilanciare l’economia di ogni singolo paese europeo, ridando al contempo sostegno politico proprio a quella costruzione politica dell’Unione, che ogni giorno pare invece abbandonata da sempre più persone scettiche, e incredule che le parole Europa e solidarietà possano ancora andare d’accordo, come fu un tempo, all’epoca del Trattato di Roma di cui quest’anno celebriamo i 60 anni. In questo DEF il rapporto deficit/PIL non è portato in pareggio, ma viene tenuto costante al 3% del PIL come previsto dall’originale costruzione fiscale di Maastricht, ben diversa da quella del fiscal compact, fino a quando l’economia non si sarà definitivamente ripresa. In Italia, si libererebbero così 50 miliardi di euro per investimenti pubblici volti a sostenere le famiglie e dare impulso alle imprese nella loro ripresa di competitività. Per rendere credibile tale scenario agli occhi degli alleati più scettici, che non credono che l’Italia possa spendere bene quei 50 miliardi “liberabili”, il Governo autore di questo nuovo DEF dovrebbe impegnarsi a una spending review vera, dedicata a recuperare ben 20 miliardi di sprechi negli appalti e nella spesa per il personale pubblico. Una spending a cui mai si accenna praticamente nell’attuale DEF italiano. Ma che è necessaria, perché nessuno Stato membro possa dire che l’Italia non deve poter spendere perché non sa spendere bene.
Per questa via, tra nuove risorse e taglio delle spese, in Italia si renderebbero disponibili 70 miliardi a 3 anni. Cifra che rimetterebbe in marcia non solo il nostro paese ma, con le dovute proporzioni, ogni singolo Stato europeo oggi in difficoltà, così ridando vita e slancio ideale all’Europa. Voi quale DEF vorreste?
Pubblicato sul blog dell’autore il 28 aprile 2017.