di Andrea Cofelice*
Lo scorso novembre, il Consiglio Affari generali dell’Unione europea ha effettuato una prima valutazione del cosiddetto “dialogo annuale sullo stato di diritto”. Si tratta di un meccanismo di natura politica, istituito nel dicembre 2014 in seno al Consiglio, con l’obiettivo di promuovere tra gli Stati membri la diffusione di una cultura del rispetto dello stato di diritto, attraverso il dialogo, la collaborazione e la condivisione di buone pratiche, in un’ottica essenzialmente preventiva (e non sanzionatoria). La presidenza slovacca, in particolare, ha invitato gli Stati membri a esprimersi sulla possibilità di rafforzare tale dialogo, sin qui rivelatosi poco efficace, trasformandolo in un meccanismo di “revisione tra pari” (peer review), che consenta di verificare periodicamente il rispetto dello stato di diritto nell’UE non per grandi temi, come fatto finora, ma con riferimento al comportamento di ciascun paese.
La reazione dei membri del Consiglio non è stata confortante. Da un lato è stata ampiamente riconosciuta (seppur non tradotta in alcuna proposta concreta) la necessità di sviluppare il dialogo, con dibattiti più frequenti, maggiormente orientati ai risultati e aperti ai contributi di altre istituzioni dell’UE e del Consiglio d’Europa. Tuttavia, il nucleo di Stati riuniti nella piattaforma informale “Friends of the Rule of Law” (Belgio, Italia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Danimarca, Austria), principali sponsor del meccanismo di peer review, non sono riusciti ad ampliare la base di sostegno di tale proposta. La maggioranza degli Stati ha manifestato cautela (Germania, Croazia, Svezia), scetticismo (Irlanda, Grecia, Spagna, Francia, Portogallo) o esplicita contrarietà (blocco dei paesi dell’Est), per lo più argomentando che il nuovo meccanismo rappresenterebbe una duplicazione costosa e non necessaria di procedure già esistenti in altre organizzazioni internazionali di cui gli Stati europei sono membri. Il Consiglio ha pertanto deciso di proseguire con l’attuale dialogo sullo stato di diritto a modalità invariata (il prossimo avrà luogo tra circa un mese, sotto presidenza maltese), rinviando ogni valutazione sulla possibilità di trasformarlo in un meccanismo di peer review alla fine del 2019.
A fronte di un Consiglio diviso e sostanzialmente inerte, nonché di una Commissione sin qui riluttante ad attivare la procedura di cui all’art. 7 del Trattato sull’Unione europea (come evidenziato dal caso della Polonia), è il Parlamento europeo ad assumere il ruolo di honest broker per tentare di superare l’attuale impasse. Lo scorso 25 ottobre 2016, il Parlamento ha approvato a maggioranza assoluta una risoluzione presentata dal gruppo ALDE (Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa) con l’obiettivo di adottare misure sistematiche per il monitoraggio del rispetto della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali negli Stati membri. In particolare, con la risoluzione il Parlamento chiede alla Commissione di presentare, entro settembre 2017, una proposta per la conclusione di un Patto dell’Unione sulla democrazia, lo stato di diritto e i diritti fondamentali (“Patto DSD”) sotto forma di un accordo inter-istituzionale che stabilisca le modalità di cooperazione in materia tra le istituzioni europee, gli Stati membri e i parlamenti nazionali.
Il Parlamento ha corredato tale raccomandazione con una bozza di accordo dettagliata. In estrema sintesi, la bozza prevede l’istituzione di un organismo di esperti indipendenti (il Comitato DSD), incaricato di compilare un rapporto di valutazione sul rispetto dello stato di diritto in ogni paese membro, contenente anche specifiche raccomandazioni su come potenziare i sistemi nazionali di protezione. Il rapporto deve essere approvato dalla Commissione e successivamente discusso dal Parlamento europeo e dai parlamenti nazionali nel corso di un dibattito interparlamentare annuale, nonché dai ministri nell’ambito del dialogo sullo stato di diritto in Consiglio. La Commissione è tenuta ad aprire dei dialoghi con quei paesi in cui la situazione dello stato di diritto sia stata giudicata problematica dal Comitato DSD. Inoltre, qualora il Comitato valuti alcune violazioni come particolarmente gravi e sistematiche, le tre istituzioni sono tenute ad avviare un dibattito formale sull’attivazione dell’art. 7 TUE.
In sostanza, la proposta del Parlamento europeo mira a istituire una sistema generale di monitoraggio e prevenzione, imperniato sul confronto periodico tra governi, parlamenti nazionali e istituzioni europee, da cui attingere per l’eventuale attivazione degli attuali meccanismi sanzionatori. Sebbene non siano previste nuove sanzioni, né alcuna forma di automatismo per l’attivazione dell’art. 7 TUE, il Patto DSD rappresenta comunque un passo in avanti rispetto alla situazione attuale. La creazione di un meccanismo permanente (non dettato, quindi, dall’emergenza) ed esteso a tutti gli Stati consentirebbe innanzitutto di depotenziare le accuse (non del tutto infondate) di selettività e politicizzazione che minano alle fondamenta la legittimità del sistema attuale. In secondo luogo, la pressione politica sui governi più intransigenti aumenterebbe in maniera significativa, poiché il Comitato DSD avrebbe la facoltà di impegnare le istituzioni europee a discutere l’attivazione dell’art. 7 TUE (circostanza sin qui mai verificatasi). Il Patto, inoltre, implicherebbe un maggior coinvolgimento del Parlamento europeo e darebbe ulteriore incisività al dialogo sullo stato di diritto del Consiglio, che sarebbe finalmente basato su rapporti e raccomandazioni nazionali.
Tuttavia, tenuto conto dell’attuale clima politico e della acclarata riluttanza di Commissione e Consiglio a creare nuovi meccanismi (o a cedere il controllo sull’attivazione dei meccanismi esistenti), sarebbe forse opportuno che il Parlamento iniziasse a riflettere su possibili opzioni alternative qualora la strada dell’accordo inter-istituzionale dovesse rivelarsi non praticabile. Facendo riferimento ai poteri conferitigli dal Protocollo n. 1 al TFUE, nonché alle proprie Regole di procedura, il Parlamento potrebbe istituire un meccanismo di monitoraggio autonomo, sotto forma di dialogo interparlamentare sullo stato di diritto, coinvolgendo le proprie controparti a livello nazionale.
Si tratta di una procedura già consolidata in altre istituzioni parlamentari internazionali. Ad esempio, nel 1997, con la Risoluzione 1115, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha istituito uno specifico Comitato di monitoraggio (Monitoring Committee) con il mandato di verificare periodicamente (in media ogni 5-6 anni) l’adempimento, da parte di tutti gli Stati membri, degli obblighi assunti ai sensi dello Statuto del Consiglio d’Europa e delle principali convenzioni europee in materia di diritti umani. L’acquisizione di tale funzione di monitoraggio ha rappresentato una iniziativa autonoma da parte dell’Assemblea, che non aveva ricevuto alcuna autorizzazione da parte degli Stati o di altre istituzioni dell’organizzazione.
Seguendo l’esempio del Consiglio d’Europa, il Parlamento europeo potrebbe istituire una propria Commissione di monitoraggio, incaricata di dialogare con i parlamenti nazionali, o attribuire tale funzione alla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni, contribuendo in tal modo a plasmare una cultura condivisa dello stato di diritto quale valore fondamentale degli Stati membri e delle istituzioni europee.
* Andrea Cofelice è Ricercatore del Centro Studi sul Federalismo.
Pubblicato sul sito del Centro Studi sul Federalismo il 26 aprile 2017.