Bruxelles – Gli hotspot funzionano, e questa è la buona notizia. Ma le strutture pensate per identificare i migranti in arrivo in Grecia e Italia presentano ancora delle criticità, e questo è cui si deve lavorare. Probabilmente ci si sta già lavorando, ma il quadro che emerge dal rapporto della Corte dei Conti europea aggiornato all’estate scorsa, non è certamente il migliore possibile. Anzi. A settembre 2016 le strutture di accoglienza in entrambi i paesi non erano ancora adeguate per ricevere (Italia) o per alloggiare (Grecia) in modo appropriato il numero di migranti in arrivo. Vi era ancora una carenza di strutture adatte ad alloggiare minori non accompagnati e a trattare questi casi in linea con le norme internazionali, sia negli hotspot che al successivo livello di accoglienza. Che si tratti di adulti o minorenni per tutti il problema è lo stesso: restano intrappolati negli hotspot. “Il sistema basato sui punti di crisi ha contribuito a migliorare la gestione dei flussi migratori”, ma dopo l’approdo nei punti di crisi occorrono i cosidetti “follow-up”, i passi successivi, vale a dire presentazione di domanda di asilo, ricollocamento in un altro Stato membro o il rimpatrio nel paese di origine (o in quello di transito). “L’attuazione di dette procedure di follow up è spesso lenta e soggetta a vari colli di bottiglia e ciò può avere ripercussioni sul funzionamento degli hotspot”.
Italia “colabrodo”, e in ritardo cronico
L’Italia doveva attivare entro fine 2015 sei punti di crisi. Per quella data ne erano aperti due (Lampedusa e Pozzallo), e altri due nei primi mesi del 2016. Risultato: a luglio 2016 la capienza totale dei quattro hotspot operativi era di 1.600 posti, “non sufficienti a far fronte ai picchi periodici di 2.000 o più arrivi al giorno”. A oggi due hotspot devono ancora essere attivati, e se ne chiede l’istituzione quanto prima. Oltre a essere in ritardo, gli hotspot italiani si sono dimostrati oltretutto inutili. Secondo i dati forniti dalle autorità italiane, nei primi sette mesi del 2016 circa il 70 % dei migranti sbarcava ancora al di fuori dei siti hotspot esistenti, facendo crescere il rischio di una incompleta registrazione dei migranti in arrivo. Probabilmente le cose sono cambiante negli ultimi mesi, anche perché l’Italia ha adottato nel frattempo l’approccio degli hotspot “mobili”, operando nei porti dove sono stati creati altri punti di crisi. Certo è che nel caso italiano la Corte dei Conti ha riscontrato fino all’estates scorsa criticità evidenti. Che rischiano di restare tali. Nonostante gli hotspot italiani siani operativi da un anno, “non è stato definito alcun monitoraggio della performance” per monitorare l’efficienza delle operazioni e l’utilizzo delle risorse, e individuare così e porre rimedio a potenziali capacità inutilizzata o colli di bottiglia.
Grecia, campo profughi d’Europa
Diversa la situazione in Grecia, dove a seguito della chiusura della rotta dei Balcani occidentali ha di fatto intrappolato su suolo ellenico una grande massa di migranti. Gli hotspot, anche qui, erano concepito come punti di transito, punti di prima accoglienza da dove, terminare le registrazioni, i cittadini extra-comunitari dovevano essere poi trasferiti in altre sedi. Le altre sedi però non ci sono, e i migranti restano negli hotspot. “Anche con molti meno arrivi rispetto al periodo precedente, nel complesso vi sono ancora più migranti che arrivano negli hotspot di quanti vanno via da essi”, rileva l’istituzione Ue. Quindi gli hotspot, in particolare quelli di Lesbo, Chio e Samo, sono drammaticamente sovraffollati. Ma in generale, nessuna struttura greca è attrezzata. Nelle parti dedicate agli alloggi spesso non vi era alcuna separazione tra uomini soli e altre categorie come donne sole, famiglie o minori.