di Gustavo Piga
Il Documento di Economia e Finanza non è la stessa cosa della Legge di Stabilità. Questa traccia le decisioni del governo su spese e tasse per l’anno a venire; quello, così voluto dall’Europa, nasce per indicare ad imprese e famiglie il contesto economico di medio termine, 3-4 anni, all’interno del quale si troveranno ad operare a seguito della programmazione governativa. Ha uno scopo rilevante, il c.d. DEF: quello di dare certezze a tali componenti sociali, influenzando le loro aspettative future, sperabilmente in maniera tale da cementare il loro ottimismo all’interno di una cornice di crescita e stabilità.
I giornali si sono sperticati a raccontare, come d’altronde il premier Gentiloni, di una manovra “espansiva”, semplicemente perché per il 2017 non è prevista che una manovrina di poco più di 3 miliardi di aggiustamento. Ma il DEF non riguarda il 2017, ma gli anni dal 2018 al 2020. E ben più appropriate appaiono al riguardo le parole del ministro Padoan, che ha parlato di «una politica fiscale particolarmente stringente» che «fa parte degli accordi europei». Ovvero del famigerato fiscal compact, l’accordo intergovernativo che stabilisce come, senza se e senza ma, il governo italiano debba raggiungere in pochi anni il bilancio in pareggio.
Spesso si è fatto notare come il fiscal compact non sia mai stato operativo, visto che ha permesso di rinviare, di anno in anno, il raggiungimento del pareggio. Una austerità sulla carta, ma non nella sostanza, che prometteva tagli di spesa pubblica e aumenti delle tasse senza mai realizzarli. Peccato che imprese e famiglie non si siano certo mai fidate di una tale rassicurazione: ansiose di ottenere certezze, le loro aspettative si sono congelate nel pessimismo, evitando di consumare ed investire nel dubbio che poi il governo portasse a termine i piani annunciati di riduzione drastica della domanda pubblica e di aumento della pressione fiscale.
Con Gentiloni ed il suo primo DEF di questo aprile è tuttavia avvenuto un cambio di passo, ancora più austero, mai adottato da nessun governo prima del suo: la decisione di confermare, e non rinviare, l’anno di pareggio di bilancio, al 2019. Lo stesso anno di pareggio promesso da Renzi nell’aprile del 2016. Avendo tre anni a disposizione Renzi era stato ben più moderato nella sua promessa di austerità e riduzione del deficit: nel 2016, aveva infatti promesso che per il 2017 il deficit su PIL sarebbe sceso dello 0,5 di PIL, circa 8 miliardi di euro, dal 2,3 a 1,8%. Ora Gentiloni con il DEF 2017 raddoppia, annunciando che il deficit dal 2017 al 2018 scenderà dal 2,1 all’1,2%, di 0,9 di PIL, 15 miliardi. Una manovrona dovrà a tal fine essere prevista, così come quella, analoga, per portare dall’1,2% allo zero il deficit nel 2019. Con tutto ciò che ne consegue per l’impatto su una economia, quella italiana, sfibrata da un decennio di recessione, prima, e di stagnazione ora. Una manovrona che ha obbligato il Tesoro addirittura ad abbassare le proprie stime di crescita per quegli anni, dall’1,2% all’1%, due anni che avrebbero dovuto segnare la ripresa della crescita nel nostro paese.
Della manovrona non parlo io, lo dice senza giri di parole l’Ufficio parlamentare di bilancio, preposto a monitorare per conto dell’Europa i conti pubblici italiani: «Il quadro per il 2018 e 2019 risente del mantenimento della disposizione di aumento delle aliquote IVA nel 2018 e dalla previsione di un ulteriore aumento di 0,9 punti dell’aliquota base nel 2019. Nell’insieme, il gettito associato ammonta a 19,6 miliardi nel 2018 e 23,3 miliardi nel 2019, corrispondenti rispettivamente al 1,1 e all’1,3 per cento del PIL».
Una straordinaria austerità che consegna l’economia italiana alla stagnazione per il prossimo decennio ma, forse ancora più importante, che consegna l’equilibrio politico del paese e forse del continente ai movimenti populisti, sancendo dunque la fine di una costruzione comune europea.
La soluzione? L’unica sarebbe quella di far rifiatare l’economia italiana finché non abbia ritrovato l’ottimismo di intraprendere nuovamente, scongelando le aspettative pervase di pessimismo che l’avviluppano da tempo. 70 miliardi sono a disposizione, per un piano di supporto all’economia, all’occupazione, specie di chi soffre maggiormente (piccole imprese, giovani, Meridione, edilizia sostenibile) e di abbattimento del rapporto debito-PIL, sinora invece sempre cresciuto a causa della stupida austerità. 20 miliardi derivanti da una vera spending review, mai fatta da nessun governo, più 50 dal tenere il deficit sul PIL bloccato al 3% come chiedeva il vecchio trattato di Maastricht, e non in pareggio, al quale si tornerà solo dopo che sarà tornato il sole.
Purtroppo questo governo non sembra pronto per un passo simile, anzi. Tra 5 mesi, quando si tratterrà di decidere se apporre la firma sull’inserimento definitivo del fiscal compact, tutto fa presumere che supinamente accetteremo il nostro fato, confermando l’austerità, la mancanza di solidarietà e l’inevitabile fine dell’Europa.
Pubblicato sul blog dell’autore il 14 aprile 2017.