di Pierluigi Fagan
Speak softly and carry a big stick; you will go far («Parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano»). Conosciuta come “politica del grosso bastone” o “diplomazia delle cannoniere”, la strategia allude alla più antica “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, già presente (con altra formulazione) nelle Leggi di Platone e poi nella tradizione latina. La politica del grosso bastone, fu memorabilmente promossa da Theodore Roosevelt, 26esimo presidente degli Stati Uniti (1901-1909) che, per altro, venne poi anche insignito del Nobel per la pace, diventando una delle quattro facce scolpite sul costone del monte Rushmore.
Il senso è intuitivamente chiaro: poiché le parole rischiano di rimanere “flatus voci”, devi metterci sotto qualche atto conseguente di modo che prendano la consistenza dell’anticipo dell’atto. Insomma se domani ti siedi ad un tavolo per trattare qualcosa, è meglio che gli interlocutori sappiano che le chiacchiere non stanno a zero, le parole hanno conseguenze. Il momento topico dell’attacco missilistico “one off” coi 59 Tomahawk è stato quando Trump si è chinato a cena a sussurrare all’orecchio di Xi Jinping «Ah sai, sto bombardando la Siria». Trump ha colto al volo l’occasione (o qualcuno ha “preparato l’occasione”, questo non lo sapremo mai) dell’infrazione chimica, per segnare alcuni punti che tornano utili per le sue molteplici trattative.
Il primo punto lo ha rivelato in anticipo lui stesso qualche giorno fa. Secondo Trump, Obama ha preparato le condizioni per il disordine siriano laddove pose la famosa “linea rossa” ma poi non conseguì la punizione alla minaccia del suo superamento. L’advisor del National Security Council – H. R. McMaster – è conosciuto come uno dei più grandi strateghi militari americani, già autore di un testo di strategia militare – Dereliction of Duty (1997) – in cui sosteneva che l’azione militare deve comunicare la volontà politica e solo se questa non basta, deve allora risolvere il problema in senso puramente militare, senza tentennamenti. Sostenne che fu questa vaghezza a monte a portare gli USA a far la figuraccia che fecero in Vietnam. Gli USA avrebbero dovuto usare subito con una certa trattenuta decisione l’opzione militare per portare al tavolo della pace il Vietnam del Nord, ovviamente all’inizio del conflitto quando la posizione Washington-Saigon era ancora forte e se e solo se ciò non avessero conseguito l’obiettivo desiderato, allora avrebbero dovuto procedere ad una azione militare massiccia e definitiva.
Trascinare una guerra lunga con volontà incerta fu la responsabilità del duo McNamara-Johnson, una responsabilità terribile in termini di risultati pratici: lunga scia di vittime e sconfitta sul campo[1]. Il primo punto quindi è: alle parole conseguono fatti, prendeteci alla lettera e regolatevi.
Il secondo punto segnato è che gli USA ribadiscono di diventar massimamente informali. Se ne fregano a priori dei riti di condivisione e degli equilibri diplomatici, rilevano un problema, agiscono, poi discutono se c’è ancora chi vuole discutere. È una postura da gioco multipolare specificatamente unilaterale, mentre quando il mondo era unipolare si consigliava la multilateralità, potenza della simmetria uno-molti. Gli USA accettano la riduzione a giocatore tra i giocatori ma ne conseguono il diritto a perseguire unilateralmente e in base alle carte che hanno in mano il proprio interesse nazionale ed il tipo di gioco che gli permetterà di perseguirlo, per altro da una posizione ancora molto forte.
Per inquadrare l’improvvisa pioggia di Tomahawk, alcuni analisti hanno anche scomodato il vecchio Kissinger, fautore di una sorta di mélange tra la strategia “Ivan il pazzo” (si ricorderà il film Caccia a Ottobre Rosso con un carismatico Sean Connery) ovvero la pura imprevedibilità e una cosciente vocazione ad accrescere il caos. Al riparo su una isola confinata tra due vasti oceani, gli Stati Uniti d’America hanno tutto l’interesse ad accendere complicate carambole di “divide et impera” e “il nemico del mio nemico è mio amico” in Afro-Eurasia. Questo mette in oggettiva difficoltà i competitor e porta gli – a volte – ambigui, indisciplinati e riottosi alleati a sottomettersi a quella “servitù volontaria” lucidamente descritta da De La Boétie già nel XVI secolo, giusto una trentina d’anni dopo Il Principe di Machiavelli. Ciò vale tanto per il quadrante asiatico, che per quello euro-russo e per quello mediorientale e naturalmente, di più per lo specifico siriano e il futuro tavolo che dovrà chiudere in qualche modo il conflitto ma vale anche per i tavoli di trattative commerciali o all’interno delle istituzioni globali (ONU, FMI, WB, BRI). Il secondo punto quindi è: state preoccupati, allineati, coperti ed in mancanze di previsioni certe, aspettatevi il peggio.
Il terzo è un punto di politica interna. Già gravemente sanzionato dai sempre più disastrosi sondaggi d’opinione, poco amato da ampie parti della maggioranza repubblicana al Congresso, costantemente accusato di rapporti ambigui con i russi, Trump sconta la sua oggettiva minoranza nel paese reale, nello Stato profondo e nelle istituzioni che dovrebbero ratificare gli atti politici conseguenti la sua impegnativa strategia di medio-lungo periodo. Catalizzare queste disordinate forze contrarie rispolverando il “commander in chief” è un classico delle strategie del consenso. In particolare, bombardando alleati dei russi, bombarda a sua volta coloro che lo hanno bombardato con le accuse di connivenze con il nemico storico ma altresì aiuta ad alzare in volo il Boeing che [ha portato] Rex Tillerson a Mosca.
Ufficialmente c’è da “spiegare” ai russi le nuove regole del gioco (Nord Corea, Ucraina, Siria, contro-terrorismo) ma è anche assai probabile che, nel chiuso delle stanze, si continuerà quella complessa trattativa portata avanti già da Manafort, Page, Flynn (tutti “pizzicati col topo in bocca” dalla stampa americana e tutti costretti alle dimissioni) e chissà chi altro: la trattativa sui nuovi assetti delle relazioni geopolitiche certo ma anche quella sulle nuove relazioni petrolifere. Del resto, se fa segretario di Stato il capo della Exxon-Mobil è evidente che non stai solo giocando a Diplomacy. Senza perdersi nelle analisi borderline su i siti di geopolitica del cosa-c’è-sotto, bastava guardare il servizio di ieri sera dell’asciutto Mark Innaro da Mosca sui tg RAI per capire che se avverti al telefono i russi e quindi i siriani che stai per bombardare, spari 59 bomboni ma ne arrivano meno della metà, distruggi vecchi Mig, la mensa ed un radar ed il giorno dopo i siriani usano le piste bombardate per riprendere i raid su Idlib, stai giocando più a fake-wrestling che ad una vera scazzottata di strada. Il terzo punto, rivolto all’interno quindi è: follow me e lasciatemi fare, ho un piano per ripristinare il prestigio della nazione.
Insomma, ci metti un po’ di bastone per disciplinare l’interpretazione delle parole sui tanti tavoli di trattativa che hai aperto e dovrai aprire, dai contributi NATO ai disavanzi commerciali, passando per la Corea, la stessa Siria, i rapporti con gli amici (dai riottosi ai convinti) ed i nemici, il Messico piuttosto che l’Iran; fai capire che non sarà facile capire cosa hai in mente e soprattutto cosa, come e quando farai quello che farai sebbene una cosa è certa: lo farai; fai capire ai tuoi che stai lì per fare l’interesse nazionale e non per bieche ragioni di bottega personale chiedendo fiducia e mani libere dal sospetto. Tutto ciò a premessa del fatto che il tempo corre e fra due anni devi portare alle elezioni di mid-term risultati tangibili e non equivochi per darti quella maggioranza effettiva senza la quale non potrai conseguire l’obiettivo fondamentale: sviluppare la “storicità” della tua presidenza.
Funziona? Mah, il problema, per chi frequenta queste pagine, è noto. Il mondo sta sviluppando una crescente complessità nel mentre gli equilibri generali vanno naturalmente (ovvero per via della ridistribuzione dei pesi demografici ed economici) in sfavore dell’Occidente, Occidente che è sempre meno coeso nell’asse USA-UE ed all’interno dell’Europa stessa dopo che i britannici hanno chiamato il “tana libera tutti”. Di contro, Trump è minoranza assoluta tanto rispetto al suo paese complessivamente inteso, quanto rispetto alla composita accozzaglia di forze che lo hanno portato alla Casa Bianca e queste, all’interno del partito repubblicano e nello “Stato profondo”. Dover invertire il trend nello score e cominciare a produrre risultati positivi crescenti per arrivare a medio termine all’incasso elettorale sarà molto ma molto difficile. Il paradosso della strategia di Trump è che, a fronte di un già nutrito numero di nemici naturali ed acquisiti, essa stessa ne produce nella misura in cui una postura decisionista, aggressiva ed egoista produce conflitto nel mentre cerca di gestire i conflitti.
Il momento storico di crescente complessità ha prodotto nel sistema dominante americano la sua reazione istintiva: il grande semplificatore. Tra i tanti aforismi attribuiti (probabilmente erroneamente) ad Albert Einstein che girano sul web, c’è quello che dice «Fai le cose nel modo più semplice possibile ma senza semplificare». L’idea che il mondo sia un tavolo in cui l’azienda USA ha un problema da trattare coi fornitori per ottenere il massimo risultato per assicurarsi benessere e longeva prosperità è la tipica semplificazione da falsa analogia. Poi è doveroso aggiungere che il mestiere critico, ancorché affetto da cronica impotenza, ha anche i suoi lati facili. L’ideale stratega degli Stati Uniti d’America, anche fosse Sunzi (Sun Tzu, stratega cinese del VI-V scolo a.C.), non potrebbe non constatare che al tavolo da gioco ha ancora un bel montarozzo di fiches ma le carte di medio-lungo periodo son proprio bruttine.
Se abbandoniamo l’album di figurine degli “uomini illustri” tanto caro al modo anglosassone di leggere la storia e leggiamo i fenomeni impersonali, le potenti forze mareali e sistemiche che tramano il modo di essere del mondo attuale, gli Stati Uniti d’America appaiono come quell’impero romano a cui spesso si son paragonati. Anche per quell’impossibilità a ripensarsi in altra forma che non quella della coazione espansiva o comunque al centro di un ampio disequilibrio tra consistenza ed ambizioni. Questa incapacità a ripensarsi che vale tanto per gli americani che per gli europei è la frattura storica più allarmante tra il Noi ed il Mondo, sia esso quello naturale, sia esso quello abitato dagli altri popoli e civiltà. Mai come di questi tempi, nessuno risponde presente, nell’intellettualità anglosassone ed occidentale, all’appello delle idee, nessuno –pare – ha idee messe a sistema di come poter affrontare i tempi. Nelle sue forme di vita associata, l’essere umano occidentale, sembra ancora essere al livello evolutivo in cui si replicano i modi consueti, senza avvertire che i feedback che il comportamento genera nella sua azione sul mondo comunicano l’urgente inversione delle logiche, la responsabile accettazione dei limiti che pervicacemente continuiamo a forzare, il faticoso varo di strategie costruzioniste che non siamo capaci di pensare, figuriamoci mettere in pratica. Troppo difficile prendere atto, troppo difficile conseguirne piani di ristrutturazione adattiva delle nostre società e dei nostri modi di vita e della nostra stessa “mentalità”, troppo difficile anche per i critico-critici uscire dalla facile posizione del “negativo” per avventurarsi – ora che suona la campana – per gli impervi sentieri dell’immaginazione di un nuovo ma concreto modo di stare al mondo.
Pubblicato sul blog dell’autore il 9 aprile 2017.
Note
[1] Per altro, senza faticare a scrivere 446 pagine e tagliar inutilmente alberi, bastava l’aforisma 6 del capitolo II del definitivo L’arte della guerra di Sunzi (Sun Tzu): «Non c’è esempio di stato che abbia tratto beneficio da una guerra prolungata».