di Cengiz Aktar
Non c’è giorno in cui il presidente della Repubblica turca Recep Tayyip Erdogan non rimproveri un politico europeo o non faccia la morale a un’istituzione europea. Gli epiteti “nazista” o “fascista” vengono ripetuti a profusione e nulla lascia intendere che i toni si smorzeranno. Gli europei, inizialmente silenziosi, rispondono ora con più o meno tatto e determinazione. È perché non se l’aspettavano!
Che sta succedendo dunque? È soltanto una tattica per aumentare i sì al referendum del 16 aprile, dopo il quale la tensione calerà di nuovo, come ritengono alcuni politici tra cui molti tedeschi? O si tratta di segnali premonitori di una rottura più profonda, più strategica?
In un dibattito aperto su Le Monde, sin dal giorno successivo al tentativo di colpo di stato dello scorso 15 luglio, scrivevo:
Dopo aver sventato il golpe militare, la Turchia non sarà più democratica, come invece lasciano intendere a torto alcune dichiarazioni in patria e all’estero. Già da tempo il pendolo politico turco non oscilla più tra democrazia e dittatura, ma tra due modus operandi dittatoriali. Infatti, il regime si sente ora sufficientemente rafforzato per imporre a livello costituzionale un sistema presidenziale forte in stile Putin, senza freni né opposizioni. Su questo, i militari golpisti, a prescindere dalla loro appartenenza, dalle loro ragioni iniziali e intenzioni finali, hanno regalato su un piatto d’argento a Erdogan il regime presidenziale che sognava dal 2010. L’“eroe della democrazia” ora deve dare inizio al processo di presidenzializzazione tramite referendum (o tramite elezioni anticipate) che è certo di vincere. Dichiarando apertamente il 15 luglio come Giorno della Democrazia, il potere incorona la sua nuova legittimità per consolidare il suo controllo totale.
La Turchia vive in una situazione d’emergenza sin dalle elezioni legislative del giugno 2015, dopo le quali Erdogan ha perso la maggioranza alla camera, e soprattutto dopo gli avvenimenti di Gezi Park a Istanbul e gli scandali sulla corruzione nel 2013. Il regime è affetto dall’usura del potere, si sente vulnerabile e in un contesto di insicurezza interna ed esterna si sono accumulati tanti errori praticamente su tutti i fronti. Il bavaglio messo alla stampa, la ripetizione forzata delle elezioni legislative nel novembre 2015 (in occasione delle quali il partito di Erdogan ha comunque riconquistato la maggioranza assoluta), i numerosi attacchi terroristici su cui ancora oggi non c’è chiarezza, il clima di generale insicurezza: nulla è stato sufficiente a soddisfare la ricerca di un potere totale. Il tentativo di colpo di stato è arrivato al momento giusto per consolidare questo potere privo di opposizione e per compiere uno scatto in avanti su tutti i piani.
Se al referendum previsto il 16 aprile vincerà il sì renderà costituzionale questo ampio potere. Quello che viene sottoposto a consultazione popolare è un emendamento costituzionale di 18 articoli scritti frettolosamente, contenenti numerose contraddizioni con la costituzione in vigore, lontano da qualunque principio costituzionale conosciuto nel mondo, che conferirà un potere totale al presidente della repubblica. Tutto, assolutamente tutto, appare legittimo agli occhi del regime per far scaturire un schiacciante sì. La crisi con l’Europa si inserisce in questo quadro ma soltanto in un primo tempo.
In effetti, il dialogo ha smesso di funzionare da qualche settimana ma i problemi esistono da più tempo, in ogni caso da ben prima del golpe mancato. Il fatto è che la Turchia candidata all’adesione all’UE non è più conforme da anni ai criteri di candidatura: ha abbandonato l’obiettivo di armonizzare la sua legislazione verso l’acquis comunitario dal 2006, sollecitata se non incoraggiata da politici anti-turchi e anti-musulmani come Nicolas Sarkozy. Oggi, tutti gli Stati membri sono a conoscenza di questo divario ma chiudono gli occhi con compiacenza, felici di veder crollare questa candidatura. E alla fine non solo ciò è accaduto, ma la Turchia di Erdogan è ora la seconda fonte di preoccupazione per l’Europa, dopo la Russia di Putin, alla frontiera orientale del continente.
Grazie a questa inversione di rotta, il regime si è completamente “liberato” dei criteri e degli obblighi europei e addirittura internazionali. Oltre ai criteri dell’Unione, la Turchia è alle prese con tutte le istituzioni del Consiglio d’Europa: la Commissione di Venezia che ha espresso un’opinione negativa sull’emendamento costituzionale e sull’organizzazione del referendum, indetto durante lo stato d’emergenza; la Corte europea dei diritti umani sta per essere sommersa dalle istanze individuali dei cittadini turchi; il commissario UE ai diritti umani mette in evidenza la questione della tortura e le enormi lacune del sistema giudiziario turco; e infine l’assemblea parlamentare del Consiglio molto probabilmente inserirà la Turchia nel meccanismo di monitoraggio a causa del mancato rispetto dei valori democratici.
Le relazioni sono tese anche con l’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per quanto riguarda la libertà di stampa e l’organizzazione di elezioni libere e giuste, mentre l’ONU ha rinviato la Turchia dinanzi al Consiglio di sicurezza dell’ONU per essersi rifiutata di rilasciare un giudice internazionale di nazionalità turca in possesso di immunità diplomatica. Sembra proprio uno Stato che si isola dal sistema internazionale e non si interessa delle conseguenze di questo isolamento. Ma non è finita qui.
Con la fine del contratto europeo, il regime ha premuto sull’acceleratore per trasformare non solo il sistema politico ma anche la società. Oggi i sistemi educativo, militare, giudiziario, economico, amministrativo e diplomatico del paese funzionano sulla base di una lealtà al regime islamista, esattamente al contrario di quel che la Turchia ha conosciuto sin dalla fine del 1999, anno d’inizio del processo europeo. Nel complesso, esiste un legame diretto tra il fallimento collettivamente ricercato dell’integrazione europea della Turchia e la radicalizzazione autoritaria e anti-occidentale del regime: la Turchia si de-occidentalizza esattamente come la Russia, entrambe fedeli a una predisposizione precedente alle riforme rispettivamente del periodo Tanzimat e di Pietro il Grande.
Questo accade perché la convinzione di alcuni politici in Europa che fantasticano sulla normalizzazione del paese immediatamente dopo il referendum o in caso di vittoria del no non ha ragione d’esistere. La spinta forte della Turchia sotto il giogo degli islamo-conservatori rimane la de-occidentalizzazione, a prescindere dal risultato del referendum. In caso di vittoria del “sì”, il regime ritroverà una legittimazione costituzionale. Ma nel caso opposto, continuerà semplicemente con la sua linea autoritaria conservando lo stato d’emergenza. In entrambi i casi, non ci sono ragioni per cui il cammino anti-occidentale del regime debba cambiare rotta, dal momento che i valori, le norme, i principi e gli standard europei saranno sempre agli antipodi rispetto ai valori, alle norme, ai principi e agli standard del regime in carica. Sappiamo per esperienza che i regimi autoritari non si trasformano mai in democrazie da soli, soprattutto quando hanno un appoggio popolare.
Resta solo il vacillante legame atlantico, che causa grandi paure agli occidentali i quali vedono incombere lo spettro dell’influenza russa. Si tratta oggi della sola e unica relazione ancora in piedi tra la Turchia e l’Occidente. La stessa Turchia che cerca di ordinare dei sistemi antiaereo russi SS400, anche sono ovviamente incompatibili con l’arsenale della NATO!
Pubblicato su VoxEurop il 12 aprile 2017. Traduzione di Andrea Torsello.