di Thomas Fazi
Quando si parla di Siria, ci sono due questioni che vengono surrettiziamente legate: la fine del conflitto e la rimozione di Assad. Secondo la narrazione dominante (anche a sinistra), il legame tra le due cose è ovvio: per porre fine al conflitto bisogna rimuovere Assad. Trattasi di una logica curiosa, però, per diversi motivi:
1. Assad, come il padre suo predecessore, è riuscito per diversi anni – anche ricorrendo a metodi brutali, è vero, ma lo stesso vale per tutti gli Stati mediorientali, inclusi quelli alleati dell’Occidente – a mantenere la pace (nonché un regime laico e multiconfessionale) in un paese che presenta un tessuto religioso estremamente complesso e frammentato.
2. Il conflitto attuale ha origine proprio nella strategia di “regime change” che da almeno quindici anni guida la politica statunitense nei confronti della Siria. Diversi cablogrammi classificati diffusi da WikiLeaks dimostrano che già nel 2006 – dunque ben cinque anni prima dell’insurrezione popolare del 2011 – gli Stati Uniti puntavano a destabilizzare «con ogni mezzo necessario» il regime di Bashar al-Assad. In particolare, la «potenziale minaccia nei confronti del regime rappresentata dalla crescente presenza di militanti estremisti» nel paese veniva vista dagli Stati Uniti come «un’opportunità» – non solo dal punto di vista politico e militare ma altresì mediatico – da incoraggiare con ogni mezzo necessario. In uno dei cablò si legge: «L’argomentazione del governo siriano secondo cui è anch’esso una vittima del terrorismo andrebbe usato contro di esso per mettere in risalto la crescente instabilità all’interno della Siria».
Un’ulteriore strategia contemplata – sempre ai fini della destabilizzazione del regime – era quella di soffiare sul fuoco dello scontro religioso e identitario, sobillando le tensioni secolari tra sciiti e sunniti, tanto all’interno della Siria (paese a maggioranza sunnita ma governato da un regime sciita) quanto a livello regionale, esacerbando le tensioni tra il regime e i suoi nemici sunniti storici nella regione, Arabia Saudita in primis. L’obiettivo, rivelano i cablò, era quello di «aumentare l’isolamento e l’alienazione [del regime siriano] nei confronti dei suoi vicini arabi», per screditarlo agli occhi della comunità internazionale e giustificare così un intervento statunitense. A tal fine, veniva considerato prioritario il sostegno al cosiddetto “governo siriano in esilio” – un drappello di uomini riuniti intorno alla figura dell’ex vicepresidente siriano Abdel Halim Khaddam, il cui obiettivo dichiarato era (ed è) il rovesciamento del regime di Assad –, e ad altre organizzazioni dell’opposizione anti-regime all’estero (come il canale Barada TV) e in Siria, a cui gli Stati Uniti hanno cominciato a trasferire fondi almeno dal 2006.
Come scrive Robert Kennedy, «l’idea di fomentare una guerra civile tra sunniti e sciiti per indebolire i regimi siriano e iraniano al fine di mantenere il controllo delle forniture petrolchimiche della regione non era un concetto nuovo nel lessico del Pentagono». Un rapporto della RAND Corporation del 2008 contiene un progetto preciso di quello che stava per accadere. Il rapporto osserva che il controllo dei depositi di gas e di petrolio del Golfo Persico rimarrà, per gli Stati Uniti, «una priorità strategica» che «interagisce fortemente con quella di perseguire la guerra duratura». A tal fine, il rapporto raccomanda l’utilizzo di «azioni segrete, operazioni di informazione, guerra non convenzionale» per imporre una strategia “divide et impera”. «Gli Stati Uniti e i suoi alleati locali potrebbero utilizzare i jihadisti nazionalisti per lanciare una campagna per procura» e «i leader degli Stati Uniti potrebbero anche scegliere di sfruttare al meglio il conflitto tra sciiti e sunniti, prendendo le parti dei regimi sunniti conservatori contro i movimenti sciiti nel mondo musulmano… possibilmente sostenendo i governi sunniti autoritari».
Trattandosi di Medio Oriente, non sorprende che dietro la strategia di “regime change” degli americani in Siria via sia – e vi è – il petrolio. Uno studio realizzato nel 2011 da una società di servizi petroliferi legata al governo francese e all’attuale amministrazione britannica notava il significativo «potenziale idrocarburico» dei giacimenti offshore della Siria. Esso descrive i bacini offshore della Siria come «una vera zona di frontiera dell’esplorazione», notando l’esistenza di varie “zone piatte”, che, se confermate, «rappresenterebbero degli obiettivi di trivellazione da svariati miliardi di barili/trilioni di piedi cubi». Un altro rapporto, redatto dall’esercito statunitense, mostra chiaramente come gli strateghi americani, britannici e del Golfo vedano il Mediterraneo come un’opportunità per rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo e per incrementare l’indipendenza energetica di Israele. A tal fine, si legge nel rapporto, potrebbe essere necessaria un’azione militare per avere accesso ai bacini offshore della Siria, che lambiscono le acque territoriali di diverse potenze mediterranee, tra cui Israele, l’Egitto, il Libano, Cipro e la Turchia. Il rapporto dell’esercito statunitense nota che le risorse offshore della Siria fanno parte di un sistema più ampio di depositi di gas e di petrolio nel bacino del Levante comprendente i territori offshore di diversi Stati in competizione tra loro. Si stima che la regione contenga all’incirca 1,7 miliardi di barili di petrolio e 122 trilioni di piedi cubi di gas naturale, un terzo del potenziale idrocarburico stimato del bacino. Per maggiori informazioni si veda qui.
È opinione diffusa che la strategia di “regime change” dell’amministrazione Bush sia stata interrotta da Obama nel 2009 a favore di una politica di dialogo. In realtà, i cablò di WikiLeaks rivelano che tale cambio di strategia «non si è mai verificato nella realtà»: il finanziamento ai gruppi dell’opposizione siriana è continuato ininterrottamente anche sotto l’amministrazione Obama. Come scrive Robert Naiman di Just Foreign Policy: «Leggendo i cablò, risulta evidente che gli Stati Uniti, anche dopo il 2009, non si sono mai veramente impegnati in una politica di dialogo: la realtà è che non hanno mai rinunciato a una politica di “regime change”». Questo è risultato evidente in seguito al 2011, quando gli Stati Uniti hanno sfruttato la rivolta popolare contro il regime – che in parte avevano sobillato – per mettere in campo la strategia di destabilizzazione, settarianizzazione e balcanizzazione del paese teorizzata da tempo dagli strateghi statunitensi, attraverso il sostegno finanziario, logistico e militare a diversi gruppi jihadisti (tra cui diverse fazioni contigue all’ISIS). Come ha scritto Jeffrey D. Sachs, almeno dal 2013 l’amministrazione Obama è stata «è [stata] impegnata in una guerra attiva, continuativa, coordinata dalla CIA con lo scopo di rovesciare Assad».
Il fatto che la strategia di “regime change” sia tornata prepotentemente alla ribalta dopo il 2011 si spiega anche con il riposizionamento della Siria nell’orbita russa in seguito allo scoppio della crisi siriana. Nel 2000, il Qatar aveva proposto di costruire 1.500 chilometri di gasdotto attraverso l’Arabia Saudita, la Giordania, la Siria e la Turchia. Il gasdotto era fortemente sostenuto sia dagli Stati Uniti che dall’Unione europea, in quanto da un lato avrebbe rafforzato il Qatar, principale alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo, mentre dall’altro altro avrebbe ridotto la dipendenza dell’Europa dall’energia russa e allentato l’influenza economica e politica di Putin. Nel 2009, però, Assad ha annunciato che si sarebbe rifiutato di firmare l’accordo che consentiva al gasdotto di attraversare la Siria, «per proteggere gli interessi del nostro alleato russo», e nel 2011 ha firmato un memorandum d’intesa per un gasdotto alternativo – il cosiddetto Islamic Gas Pipeline – che dovrebbe partire dai giacimenti di gas dell’Iran e arrivano fino al Mar Mediterraneo, passando per l’Iraq, la Siria e il Libano. Il gasdotto islamico renderebbe l’Iran sciita, non il Qatar sunnita, il principale fornitore del mercato europeo dell’energia e aumenterebbe notevolmente l’influenza di Teheran (e dunque della Russia) in Medio Oriente e nel mondo. L’intensificarsi del conflitto siriano, a causa soprattutto della destabilizzazione esterna ad opera degli Stati Uniti, ha però effettivamente reso nulli i progetti per il “gasdotto islamico”, che sarebbe dovuto essere completato nel 2016.
È questo il grande gioco geopolitico – o uno dei grandi giochi geopolitici – alla luce del quale va letto l’intervento americano post-2011 in Siria (così come quello russo). L’anno scorso il New York Times ha riportato alcuni fatti legati ad un ordine presidenziale segreto del 2013 che autorizza la CIA ad armare i ribelli siriani. Secondo il resoconto del giornale, l’Arabia Saudita avrebbe fornito un consistente finanziamento per gli armamenti, mentre la CIA, su ordine di Obama, ne avrebbe garantito il supporto organizzativo e la formazione. Documenti dei servizi segreti sauditi, pubblicati da WikiLeaks, mostrano inoltre che la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita stavano già armando, formando e finanziando combattenti radicali sunniti jihadisti provenienti da Siria, Iraq e altrove – ovviamente con il consenso degli statunitensi – per rovesciare il regime di Assad. È importante sottolineare che gli Stati Uniti hanno continuare a inviare armi in Siria nonostante fosse evidente che alcune di queste sarebbe finite nelle mani dell’ISIS. «Intratteniamo buoni rapporti con i nostri fratelli dell’ELS», ha dichiarato l’ex leader dell’ISIS Abu Atheer nel 2013, riferendosi all’Esercito siriano libero (i cosiddetti “ribelli moderati”), sostenuto dagli USA, da cui disse di aver acquistato missili antiaerei e anticarro. Stando alle dichiarazioni degli ufficiali statunitensi, l’ascesa dell’ISIS aveva colto l’intelligence americana di sorpresa. Eppure un rapporto del 2012 della Defense Intelligence Agency (DIA) statunitense – che ebbe ambia diffusione negli ambienti del governo americano – dimostra che gli Stati Uniti sapevano benissimo che i propri Stati satellite – identificati come «i paesi occidentali, gli Stati del Golfo e la Turchia» – stavano lavorando alla creazione di uno “Stato islamico” nella regione, come poi è avvenuto. «Questo è esattamente quello che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione – si legge nel rapporto – al fine di isolare il regime siriano, considerato un punto di riferimento strategico per l’espansione sciita (Iraq e Iran)».
È ampiamente dimostrato, in particolare, che elementi di alto livello del governo e delle agenzie di intelligence della Turchia – membro della NATO e stretto alleato degli Stati Uniti – hanno offerto sostegno militare e finanziario all’ISIS, e che questo comprendeva la vendita di petrolio sul mercato nero; è altresì un fatto che gli eserciti occidentali non hanno fatto nulla per bloccare le linee di approvvigionamento dell’ISIS attraverso la Turchia, né hanno mai attaccato le infrastrutture cruciali dell’ISIS, tra cui i convogli petroliferi.
Come ha commentato il giornalista statunitense David Mizner, la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra contro il governo siriano ha giocato un ruolo centrale «nella trasformazione dello Stato islamico dell’Iraq in una potenza regionale che ha conquistato – e devastato – ampie regioni di entrambi i paesi. Questo esito era perfettamente prevedibile, ed infatti era stato previsto dallo stesso governo americano… È questa la verità a lungo occultata che il rapporto della DIA mette in evidenza: dopo la fase iniziale della guerra in Siria, sostenere la guerra contro il governo di Assad equivaleva ad aiutare l’ISIS». A partire dal 2014, gli ufficiali statunitensi hanno iniziato a prendere le distanze dalle azioni a sostegno dell’ISIS dei loro alleati. Nella pratica, però, il comportamento del governo americano nei confronti del gruppo terroristico è stato estremamente ambivalente. Nel settembre 2016, gli Stati Uniti hanno addirittura bombardato una postazione dell’esercito siriano – “per sbaglio”, secondo la versione ufficiale, successivamente smentita da un’indagine interna dell’esercito americano – che stava difendendo la città di Deir ez-Zor, uccidendo circa cento soldati e facilitando così la presa della città da parte dell’ISIS.
La cosa non dovrebbe sorprendere. Lo smembramento e la balcanizzazione della Siria è precisamente uno degli obiettivi della strategia statunitense nella regione, scrive il ricercatore britannico Nafeez Ahmed:
Esiste ormai un cartello di interessi estremamente ampio e potente – comprendente importanti imprese statunitensi, britanniche, francesi ed israeliane operanti nei settori della difesa, della sicurezza, dell’energia e dei media – che spinge per la disgregazione della Siria. La motivazione principale è il controllo delle potenziali risorse petrolifere e di gas offshore della Siria e del Mediterraneo orientale; tra l’altro, questo avrebbe anche l’effetto di indebolire molto la posizione della Russia e dell’Iran nella regione.
Questa tesi è avallata anche da Sachs, secondo cui gli sforzi americani in Siria «non hanno lo scopo di proteggere il popolo siriano… ma sono in realtà una guerra per procura contro l’Iran e la Russia con la Siria come campo di battaglia». Il recente attacco statunitense ad opera dell’amministrazione Trump – ufficialmente in risposta ad un presunto attacco chimico, la cui responsabilità del regime rimane tutta da dimostrare[1] – rientra presumibilmente in questa strategia, nonostante la distensione dei rapporti col regime annunciata dal neopresidente statunitense in campagna elettorale.
Non c’è niente di nuovo in tutto ciò. Il sostegno – diretto o indiretto – degli Stati Uniti all’ISIS e ad altri gruppi estremisti si inserisce in una strategia sessantennale di destabilizzazione e di sostegno statunitense al terrorismo jihadista in Siria e in Medio Oriente più in generale. Come scrive Robert Kennedy, nipote di JFK, «dobbiamo riconoscere che il conflitto siriano è una guerra per il controllo delle risorse, non diversa dalla miriade di guerre clandestine e non dichiarate per il petrolio che abbiamo combattuto in Medio Oriente per 65 anni». L’ingerenza americana in Siria risale al 1949, quando gli Stati Uniti organizzarono un colpo di Stato con cui deposero il presidente democraticamente eletto, che aveva realizzato una fragile democrazia basata sul modello americano, e lo sostituirono con un dittatore scelto dalla CIA. Anche in quel caso, nota Roberts, l’intervento americano fu motivato dal rifiuto del governo siriano di approvare l’oleodotto trans-arabo, un progetto americano destinato a collegare i campi petroliferi dell’Arabia Saudita ai porti del Libano attraverso la Siria.
3. Senza l’intervento esterno degli Stati Uniti è lecito dubitare che la situazione sarebbe degenerata nella guerra sanguinosa che da allora dilania il paese. Alla luce di ciò, sostenere che la soluzione al conflitto sia portare a termine la strategia di “regime change” che di quel conflitto è la causa scatenante rappresenta un salto logico quanto meno azzardato; la conseguenza più probabile della deposizione violenta di Assad e conseguente balcanizzazione della Siria (sul modello Iraq, Libia, ecc.), infatti, sarebbe quella di far sprofondare il paese in un guerra civile ancora più sanguinosa di quella attuale (senza considerare le conseguenze più ampie sul piano internazionale, di cui già abbiamo delle avvisaglie), non quella di far fiorire una ridente socialdemocrazia occidentale.
4. Se le cose stanno così, risulta abbastanza chiaro che la via migliore per porre fine al conflitto e riportare la pace nel paese sarebbe quella di interrompere immediatamente la strategia di destabilizzazione esterna e di “regime change” tutt’ora in corso e aiutare Assad a sconfiggere le forze jihadiste e a riprendere il controllo del paese; in un secondo momento si potrà poi valutare quali siano le istituzioni e gli strumenti più appropriati per aiutare le forze della società civile siriana ad avviare un processo di democratizzazione del paese.
Insomma, a detta di chi scrive, avere tutte e due le cose – la pace e la rimozione di Assad – pare francamente impossibile, a prescindere da qualunque altra considerazione di carattere politico, morale o legale; mi pare piuttosto che la scelta, piaccia o meno, sia tra (1) la permanenza di Assad al potere e l’avvio di un lento processo di pacificazione e democratizzazione del paese; e (2) il “regime change” e la definitiva irachizzazione della Siria, con tutte le conseguenze che si possono immaginare: proliferazione del terrorismo, esodi ancora più massici di profughi, ecc. Non vedo “terze vie”.
Note
[1] Basti sapere che la principale fonte a sostegno della tesi secondo cui l’attacco sarebbe responsabilità del regime è un dottore arrestato nel 2012 nel Regno Unito con l’accusa di terrorismo (e successivamente scagionato per insufficienza di prove) e che gli Stati Uniti finora hanno bloccato qualunque richiesta per un’indagine indipendente sui fatti di Idlib.