di Pasquale Cicalese
Da quando il mercato mondiale è divenuto una realtà operante, una serie di paesi industriali si fanno concorrenza; al capitale che si trova in eccedenza vengono offerti in tutte le parti del mondo campi di investimento infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si ridistribuisce in misura molto maggiore, mentre la superspeculazione locale viene superata con maggiore facilità. Al tempo stesso sul mercato interno la concorrenza retrocede di fronte ai cartelli e ai trusts, mentre sui mercati esteri essa trova una barriera nei dazi protezionistici, di cui si circondano tutti i paesi industriali. Ma questi dazi rappresentano in realtà soltanto degli armamenti per la definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale.
Friedrich Engels, nota al III capitolo de Il Capitale, citato da Gianfranco Pala, Economia nazionale e mercato mondiale, Laboratorio Politico, Manes editore 1995
La struttura degli equilibri del capitalismo internazionale di lunga durata sta sperimentando una altrettanto profonda riconfigurazione. Nel 1991, secondo l’UNCTAD, il 36% del valore aggiunto industriale globale era riferibile all’Europa e il 24% al Nord America. Adesso queste quote sono scese rispettivamente al 25 e al 22%. Dal 2000 gli USA hanno perso il 27% dei posti di lavoro nella manifattura, l’Italia ha perso il 12%, la Germania l’8%.
Paolo Bricco, “L’identità manifatturiera nella risposta europea”, Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2017
La mattina del 31 marzo il segretario al commercio USA Wilbur Ross dichiarava all’ABC che gli Stati Uniti sono in una guerra commerciale, una guerra che dura da decenni e che ora le truppe USA sono schierate. Con questa battuta Ross squarciava il velo delle relazioni economiche internazionali degli ultimi 50 anni. Dopo Nixon ’71, che dichiarava la fine dei cambi fissi di Bretton Woods e lo sganciamento del dollaro dall’oro, il segretario al commercio informava che la globalizzazione costruita in questi decenni, con gli USA a fare da spugna del commercio mondiale, era finita.
Trump realizzava in tal modo ciò che aveva promesso durante la campagna elettorale sotto il motto “America First”. Subito, il vice cancelliere tedesco Sigmar Gabriel chiedeva alla UE di portare in giudizio all’Organizzazione mondiale del commercio gli Stati Uniti, dopo che questi aveva messo dazi all’import di prodotti tedeschi ed europei. La guerra commerciale, e quella valutaria, in corso negli ultimi decenni, tornava alla ribalta in modo chiaro. Seguivano dichiarazioni allarmanti di vari esponenti europei, con Calenda, ministro dello sviluppo economico, che in occasione del G7 delle confindustrie occidentali, invitava gli americani a fermarsi e a trovare un fronte comune contro i concorrenti che non sono “economie di mercato”.
Tutti sono dell’idea che il vero bersaglio della dichiarazione di Ross fosse la Cina, ma da Pechino facevano sapere che la Cina è disponibile a venir incontro alle richieste americane a patto che tolgano i veti agli investimenti cinesi in USA e che la Casa Bianca permetta finalmente ai produttori americani di high-tech di poter esportare nel paese asiatico.
La dichiarazione di Ross, a cui ha fatto seguito quella di Trump, guarda caso due giorni dopo l’ufficializzazione della Brexit, ha un’importanza storica al pari di Nixon ’71 e della bancarotta di Lehman Brothers del 2008. Dieci anni dopo la crisi mondiale del 2007 il conflitto intercapitalistico si palesa e la solidarietà occidentale, camuffata negli ultimi decenni, esce a pezzi.
Nulla sarà come prima. Come rispondono i vari attori a questo nuovo scenario protezionista, segno che la devastante crisi di sovrapproduzione iniziata negli anni settanta non conosce soluzioni? Gli USA sono chiaramente in vantaggio: sin dal dopoguerra hanno creato una rete transnazionale di aziende globali, dislocando siti produttivi in tutte le parti del mondo, creando in tal modo, molto prima dei concorrenti europei, catene transnazionali del valore. Quindi potranno parare il colpo. Inoltre, l’economia americana è dipendente dalle esportazioni per una misura minima, il 19%, contro il 30% italiano e addirittura il 51% tedesco. È una economia quasi autosufficiente, con materie prime e con servizi, specie finanziari, egemoni sul piano mondiale. Inoltre hanno bandiera americana le principali aziende della nuova economia nata negli ultimi 40 anni grazie ai finanziamenti pubblici, specie reaganiani, al Pentagono con la corsa agli armamenti degli anni Ottanta. In questo ambito, gli unici che tengono testa sono le aziende cinesi con l’Europa non pervenuta.
Difatti nella nuova economia è un duopolio sino-americano. Trump, e con lui Theresa May, premier britannico, sono gli unici politici occidentali che hanno capito che nel XXI secolo puoi tenere testa all’Asia solo se ricostruisci il mercato interno, e lo fai con produzioni industriali ad alto valore aggiunto, salari adeguati e infine ricostruzione della classe media. “America First” significa esattamente questo, così come la Brexit.
Per quanto concerne la Cina, la sua dirigenza aveva capito sin dal 2007 che la crisi occidentale era profonda e che bisognava assolutamente cambiare rotta. Da quell’anno tutti gli sforzi furono concentrati a costruire un forte mercato interno, alla industrializzazione dell’ovest periferico, a puntare sull’innovazione di prodotto e di processo, a reflazionare salari ed economia e a costruire campioni mondiali.
Nel 2014 il governatore della People’s Bank of China Zu Xiaochuan, in una storica conferenza stampa, invitava le aziende cinesi al “go global”: in tal modo, dopo circa 60 anni dagli americani, la dirigenza cinese si focalizzava sulla costruzione anch’essa di filiere transnazionali di valore, nella costruzione di aziende industriali con basi produttive in tutti i continenti. Da un punto di vista del commercio estero il focalizzarsi sul mercato interno ha portato all’abbattimento del surplus delle partite correnti, dal 10% al 2,1% e ad un peso dell’export sul PIL complessivo di appena 21%, poco sopra quello americano. Non solo, alla Conferenza di Davos del gennaio scorso il presidente Xi Jinping informava la platea di amministratori delegati di multinazionali che la Cina nei prossimi 5 anni importerà beni dal mercato mondiale per 8mila miliardi di dollari e che farà investimenti all’estero per 1.000 miliardi di dollari. Con questo faceva sapere che sarà la prossima spugna del mercato mondiale e che renderà la propria industria transnazionale.
Veniamo al Giappone, il temibile concorrente degli americani degli anni ottanta. Questo paese è in una profonda crisi da decenni, dipende dal mercato mondiale a tal punto che l’indice borsistico Nikkei aumenta o diminuisce giornalmente a seconda se lo yen si indebolisce o si rafforza in confronto al dollaro. Quindi un’eventuale guerra protezionista lo potrebbe danneggiare enormemente.
Quanto all’Europa, Bricco ci informa che il vecchio continente ha perso 11 punti percentuali della quota mondiale del valore industriale dal 1991, guarda caso da quando è stato firmato il Trattato di Maastricht.
Non poteva essere diversamente, l’UE e l’eurozona in particolare sono stati costruiti su un modello deflazionista che uccide il proprio mercato interno, deflaziona i salari per conquistare fette di mercato mondiale. Questo processo si è intensificato dopo la crisi del debito sovrano, a tal punto, informa Salerno Aletta, che «nei dodici mesi terminati a dicembre scorso, l’eurozona ha accumulato nel suo complesso un attivo di 358 miliardi di euro in termini di bilancia dei pagamenti correnti e di capitale. È un risultato ampiamente positivo, in crescita ininterrotta dal 2011, sostenuto dalla svalutazione dell’euro: è passato dai +229 miliardi di euro del 2013 ai 246 miliardi del 2014, ai 304 miliardi del 2015» (“La secessione silenziosa”, Milano Finanza, 1 aprile 2017).
Di converso, gli USA negli ultimi 20 anni hanno accumulato una posizione negativa pari a 7.200 miliardi di dollari, l’UK a 1.700 miliardi di dollari. Il modello mercantilista europeo, mutuato da quello tedesco e applicato ad una popolazione di 500 milioni di persone ha deflazionato negli ultimi anni il mercato mondiale ed essiccato lo scambio di merci, non permettendo ai paesi debitori sul piano estero di ripagare il dovuto. Se vediamo il confronto Italia-Cina, è straordinario come le cose siano cambiate rispetto a soli 15 anni fa. Infatti nei primi mesi del 2017 l’export italiano in Cina è aumentato del 33%, l’import dal paese asiatico è diminuito dello 0.7%, segno della stagnazione della domanda interna italiana a seguito delle «feroci manovre recessive».
Se ampliamo lo sguardo in ambito europeo, non pochi analisti ritengono che la crescita tedesca nel 2016, almeno nei primi 6 mesi, abbia coinciso con la forte politica di espansione fiscale cinese, che ha trascinato l’export tedesco e le sue sussidiarie europee.
Emma Marcegaglia, Presidente di Business Europe, la Confindustria europea, solo un mese fa sul Corriere sosteneva che l’Europa ha bisogno della globalizzazione perché nei prossimi decenni il 90% della crescita sarà extra-europeo. Da questo punto di vista, il mercato americano è più protetto e la mossa di Trump, dopo l’egemonia della finanza e della new economy, è quella di riconquistare la leadership nell’old economy. Se così fosse, la quota di valore industriale europeo, anche a seguito della morte della domanda interna, scenderebbe terribilmente ancor di più, uno scenario di giapponesizzazione estremo.
Nei prossimi anni ognuno si farà il proprio mercato continentale: con la Brexit, la Gran Bretagna si rivolgerà all’anglosfera e al Commonwealth, la Cina punterà ad allargare lo spazio della classe media, gli USA ricostruiscono il proprio mercato interno grazie alla border tax, che punisce l’import allargandolo all’anglosfera, Europa e Giappone rimarranno impantanati in uno scenario di scarsa domanda interna.
Il protezionismo obbligherà ad una nuova ridislocazione della filiere industriali transnazionali e, nel contesto di crisi di sovrapproduzione, gli armamenti del conflitto interimperialistico, come dice Engels, la faranno da padrona.
Non esiste solo guerra guerreggiata, più profonda e causa di disastri anche maggiore c’è la guerra economica, commerciale e valutaria, anzi quella guerreggiata è solo una conseguenza.
Il XXI secolo è la riedizione della fine Ottocento, le contraddizioni interimperialistiche di quel periodo portarono a due guerre mondiali. Cosa ci riserverà quella attuale?
Pubblicato su Marx21.it il 4 aprile 2017.