di Elisabetta Segre e Roberto Fantozzi
«Un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali».
Manifesto di Ventotene
La necessità di ridurre le disuguaglianze è da sempre stata un punto cardine del progetto di unità europea e uno dei primi obiettivi che la Comunità si diede alla sua nascita. «Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme della Comunità, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica e sociale. In particolare la Comunità mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite o insulari, comprese le zone rurali» (art. 158 Trattato sull’Unione europea versione consolidata).
Sarebbe stata l’integrazione regionale «l’arma che avrebbe reso un’altra guerra tra Francia e Germania non solo impensabile ma materialmente impossibile». In base a questa idea, Robert Schumann presenta nel maggio del 1950 la proposta di creare la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, il primo passo verso la nascita nel 1957 della Comunità economica europea. Alla fine degli anni ’60 viene creata la direzione generale della politica regionale e nel 1975 il fondo europeo di sviluppo regionale. L’Unione non sarebbe stata completa «se le differenze e le divergenze che esistono all’interno della comunità permangono», dichiarava nel 1971 il Commissario alla politica regionale. La politica regionale europea ha, quindi, perseguito essenzialmente due obiettivi: promuovere la crescita economica e minimizzare al contempo le diseguaglianze tra territori (diseguaglianze nei risultati e nelle opportunità). Inizialmente trascinata dall’idea neoclassica che il libero mercato, l’integrazione economica e il libero commercio avrebbero in breve tempo portato alla convergenza dei livelli di sviluppo economico attraverso un classico meccanismo di catching up, la politica regionale punta principalmente a ridurre i costi di trasporto e annullare le barriere commerciali.
Alla fine degli anni ’80 la Comunità ha necessità di adattarsi all’ingresso di Grecia, Spagna e Portogallo, paesi sostanzialmente e strutturalmente più poveri della media. Nasce così la politica di coesione che diventa in breve tempo un cardine centrale del sistema di politiche europee. Contestualmente si diffondo le idee della new economic geography che intravede la possibilità di una crescita delle diseguaglianze e della divergenza proprio come risultato della maggiore apertura commerciale e della riduzione dei costi di trasporto perché queste misure avrebbero al contempo favorito lo spostamento dei fattori produttivi verso le regioni più sviluppate dal punto di vista economico e quindi caratterizzate da rendimenti più elevati. Questo spostamento, dovuto a costi fissi alti e alla maggiore concentrazione di capitale finanziario e umano nelle regioni core, avrebbe generato degli effetti di agglomerazione che a loro volta avrebbero impedito qualsiasi processo di convergenza. Da questo la necessità di intensificare le politiche di coesione nelle regioni periferiche con livelli più bassi di sviluppo economico. Nel 1993 nasce il Fondo di coesione destinato alle regioni con un reddito nazionale lordo inferiore al 90% del reddito medio europeo.
Il budget delle politiche di coesione è passato da 64 miliardi di ECU per il periodo 1989-1993 a 351,8 miliardi per il periodo 2014-2020, circa il 33% del budget europeo (quota più o meno stabile dall’inizio degli anni ’90)[1].
Dopo oltre trent’anni di attività i risultati delle politiche regionali e di coesione dell’Unione europea sembrano essere contrastanti. Non esiste innanzitutto un lavoro di valutazione sistematica dell’impatto delle politiche di coesione ma piuttosto lavori di natura macro che mirano a verificare l’esistenza di un processo di convergenza tra i paesi e le regioni europee. Lo stesso Rapporto ufficiale sulla politica di coesione diffuso dalla commissione europea nel 2014 esamina le serie storiche di alcuni indicatori macro come il coefficiente di variazione (tra regioni) dei livelli di PIL pro capite, dei tassi di occupazione e disoccupazione o come l’indice di Theil nei livelli di PIL pro-capite. L’analisi dell’andamento di questi indicatori mostra un timido processo di convergenza (trainato soprattutto dalla crescita nelle regioni core dei paesi di nuovo ingresso) che si sarebbe interrotto dall’arrivo della crisi economica.
Mentre i segnali macro che arrivano dal processo di coesione hanno mostrato anche alcuni timidi segnali di convergenza dei territori, lo scenario micro, quello delle disuguaglianze economiche tra gli individui, non lancia, invece, segnali rassicuranti.
L’assenza di una politica fiscale comune, unitamente a impostazioni di politiche neoliberiste hanno permesso alla disuguaglianza di crescere nonostante gli obiettivi di Europa 2020.
Nell’Unione Europea la percentuale di cittadini a rischio di povertà o di esclusione sociale è aumenta nel corso degli anni recenti (21,8% nel 2005 rispetto al 23% del 2015; cfr. figura 1), complice anche la crisi economica. Le stesse analisi presentate in ambito europeo sottolineano come l’Unione non stia facendo alcun progresso per raggiungere, nel 2020, gli obiettivi relativi alla povertà e all’esclusione sociale. Anzi, il contrario. Nel 2015 le persone povere o a rischio di esclusione sociale sono state nell’EU (28) circa 118 milioni e nel 2014, nelle stesse condizioni c’erano 26,1 milioni di bambini, circa 1/5 di tutte le persone che vivono nelle medesime condizioni.
Guardando poi alla disuguaglianza nel suo complesso, ossia osservando la distribuzione dei redditi, i segnali che arrivano non sono più incoraggianti.
La ricostruzione storica dei dati permette di evidenziare come in Europa, nei decenni subito dopo la seconda guerra mondiale, la disuguaglianza economica diminuiva in molti paesi europei grazie al sostegno di sistemi di welfare e previdenziali, finanziati da un’imposizione progressiva sui redditi, capaci di attenuare, così, le differenze generate dal mercato. Congiuntamente all’azione del welfare contribuivano, poi, alla riduzione della disuguaglianza la crescente quota dei salari, la riduzione della concentrazione dei patrimoni personali e la minore dispersione delle retribuzioni grazie alla contrattazione collettiva[2].
Negli anni in esame il ruolo del welfare state è stato cruciale nell’impedire che il crescente divario dei redditi di mercato si ripercuotesse senza alcun filtro anche sul reddito disponibile. Con il passare degli anni diversi fattori come il miglioramento delle condizioni di vita, l’aumento demografico – in particolare delle quote di popolazione dipendente, ossia non più in età lavorativa – e il crescente aumento dei bisogni hanno determinato scenari a in cui il welfare non è più riuscito a garantire il suo ruolo. Anzi, in molti casi ha dovuto ridimensionare i confini con conseguenze negative sulla distribuzione. Lo scenario che si è andato via via delineando è ben riassunto nell’analisi di Förster e Tóth che scrivono: «Il potere redistributivo del welfare è stato indebolito nel periodo fra la metà degli anni Novanta e la metà del Duemila. Mentre nel periodo fra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta la quota dell’aumentata disuguaglianza di reddito di mercato che veniva compensata da imposte e trasferimenti arrivava ad un livello di quasi il 60%, essa è scesa a circa il 20% alla metà degli anni 2000»[3]. Tutti fattori che hanno contribuito, insieme al welfare state, alla riduzione della disuguaglianza dopo la metà degli anni Novanta hanno anch’essi cambiato direzione determinando così la fine del processo di egualizzazione iniziato in precedenza.
Negli anni recenti poi, complice anche la crisi economica, lo scenario non è mutato. Tra il 2005 e il 2015, in Europa l’indice del Gini per i redditi da mercato è cresciuto di 3,5 punti percentuali (cfr. figura 1)con picchi di 12,6 punti percentuali raggiunti in Grecia. Anche la disuguaglianza dopo i trasferimenti è cresciuta, anche se a ritmi meno consistenti, grazie all’effetto delle pensioni. Le altre misure di welfare hanno in parte arginato le asimmetrie del mercato senza riuscire però ad invertirne le tendenze.
In generale, i sistemi di welfare non sono più riusciti a ridurre, complici anche scelte politiche mirate al taglio dei benefici e alla riduzione delle coperture, la crescente disparità generata dai mercati. Analisi più dettagliate evidenziano come questo divario nel mercato, che ha raggiunto ormai dimensioni considerevoli, sarebbe difficilmente contrastabile con i soli mezzi della tassazione e dei trasferimenti. In questo scenario si afferma, così, la necessità di adottare politiche di “pre-distribution”. Il ruolo di queste politiche, quindi, dovrebbe essere finalizzato al contrasto di tutti i fattori che determinano le crescenti disuguaglianze generate dal mercato. Alla luce di queste considerazioni, per rendere più efficace la sua azione di riduzione delle disuguaglianze, la Comunità europea, oltre a dotarsi di una politica fiscale comune, dovrebbe orientare la sua intensa attività di regolamentazione verso misure che favoriscano una più equa distribuzione dei redditi anche a monte dell’intervento pubblico. Parliamo di regolamentazione dei mercati che impediscano la formazione di rendite; miglioramento del funzionamento del mercato del lavoro ed estensione dei diritti di proprietà, anche quelli intellettuali.
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 4 aprile 2017.
Note
[1] 168 mlrd di ECU 1994-1999; 213 mlrd di euro 2000-2006; 347 mlrd di euro 2007-2013.
[2] A. B. Atkinson: InequalIty. What Can Be Done?.;Harvard University Press Cambridge (2015)
[3] M.F. Förster, I.G. Tóth: Cross-Country Evidence of the Multiple Causes of Inequality Changes in the OECD Area; in Handbook of Income Distribution (2015)