di Stefano Lenzi*
Giusta, sostenibile, democratica e inclusiva: è questa “l’Europa che vogliamo”. Sono queste le migliori caratteristiche su cui è stata costruita nella pace (una pace non scontata) l’Unione europea negli ultimi 60 anni. Sono questi gli obiettivi, quanto mai attuali oggi, che sono stati rilanciati in un appello, sottoscritto per incidere sulla Dichiarazione di Roma venuta alla luce sabato 25 marzo a conclusione delle Celebrazioni del 60esimo anniversario del Trattato di Roma. Un appello frutto di una forte alleanza su scala europea tra ambientalisti (il WWF), le Confederazioni sindacali (ETUC), la Confederazione europea per l’aiuto e lo sviluppo internazionali (CONCORD), la Lobby europea delle donne, il Forum dei giovani europei, il Movimento Europeo.
È esemplare che la società civile abbia dovuto riprendere e rilanciare questi principi ispiratori, chiedendo all’Europa di ri-farli suoi dopo anni in cui sono stati smarriti. In questi ultimi 20 anni, l’Unione non ha saputo parlare ai suoi cittadini, né ha saputo ascoltarli mentre si affermavano e consolidavano squilibri e ingiustizie in campo ambientale, sociale ed economico.
Ora si parla di Europa a più velocità o su diversi piani. Basta che l’esigenza di maggiore flessibilità tra il centro dell’Unione e gli Stati membri non costituisca un alibi per non affrontare quelle distorsioni del sistema, provocate dall’ossessione sugli aspetti finanziari e di mercato che hanno condizionato l’agenda delle istituzioni comunitarie. Se questi sono stati elementi condizionanti, la riflessione sul grado di democraticità del progetto europeo passa anche attraverso una valutazione di quanto sia stata efficace la difesa e la concreta attuazione di quegli elevati standard della convivenza civile europea che sono stati apprezzati per anni in tutto il mondo.
E l’attenzione dedicata all’ambiente nel corso del tempo della UE, a partire dalle normative sulla Valutazione di impatto ambientale dei progetti e sulla Valutazione ambientale strategica di piani e programmi, ha fatto scuola fuori dai confini dell’Unione e nei 28 paesi membri. Tanto che oggi l’80% delle legislazioni nazionali in campo ambientale sono di derivazione comunitaria. Ma non è un patrimonio acquisito una volta per tutte.
Per fare un esempio di quali siano i rischi che si continuano a correre in tema di ambiente, basti ricordare che il presidente della Commissione Junker sin dall’inizio del suo mandato, nella sua più ampia azione di semplificazione delle regole e delle norme europee esistenti, aveva sostenuto che le più importanti normative comunitarie per la protezione della natura (le Direttive “Habitat” e “Uccelli”) dovessero essere riviste e depotenziate. Si tratta di un corpo di norme che consentono di tutelare il 18% del territorio dell’Unione con la Rete Natura 2000. Ci sono voluti oltre 500mila cittadini, che hanno partecipato alla consultazione popolare tenuta nel 2015, per chiarire come il vero problema non fosse la presunta inattualità delle norme, ma la capacità degli Stati membri di implementarle. La Commissione europea, di fronte ad una così imponente reazione della società civile che non ha precedenti nella storia dei processi partecipativi dell’Unione, ha dovuto ricredersi ed ora ha deciso di monitorare l’attuazione delle direttive negli Stati membri e di dare chiare indicazioni perché queste norme siano pienamente e correttamente applicate.
Per il futuro dell’Europa e per il benessere del pianeta era quindi fondamentale che i leader europei, riunitisi lo scorso 25 marzo a Roma, trovassero le parole giuste per parlare un linguaggio comune e per ascoltare le centinaia di milioni di cittadini europei che hanno chiesto di recuperare la chiave di volta di un destino, di un futuro condiviso. «L’Europa migliore è quella che offre vantaggi tangibili alle persone ed è laddove l’azione congiunta di suoi membri crea benefici tangibili per le persone ed il pianeta». Questo era quanto è stato detto sempre dal WWF, da ETUC; CONCORD e altri in un primo appello per una “Nuova Europa” lanciato nel settembre 2016 alla vigilia del Consiglio d’Europa di Bratislava, preparato per tempo per incidere sul percorso che avrebbe portato alle celebrazioni di quest’anno.
Concetti poi ripresi nel recente appello “L’Europa che vogliamo” in cui è stato chiesto ai leader europei di avere la capacità di operare per «orientare l’Europa sulla strada di un futuro sostenibile, che renda effettivi i diritti di tutti e tenga in considerazione i limiti del Pianeta». Reso pubblico lo scorso febbraio, quest’ultimo documento delle organizzazioni della società civile nasce espressamente per tentare di incidere sulla Dichiarazione di Roma indicando otto specifici punti su cui è stata richiamata l’attenzione delle istituzioni europee (Commissione, Consiglio e Parlamento europei) e dei capi di Stato e di governo dei paesi membri.
Tra gli otto punti in esso contenuti, quelli più caratterizzanti dal punto di vista ambientale erano i due dedicati rispettivamente all’attuazione su scala europea e nazionale dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e alla piena attuazione dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici «accelerando la transizione giusta e sostenibile verso fonti energetiche pulite rinnovabili e convenienti, in modo da mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2° C continuando gli sforzi per conseguire l’obiettivo di non superare il 1,5° C di aumento medio della temperatura globale».
Ma l’impegno istituzionale non può essere frammentario. Per questo nell’appello veniva richiesto un impegno concorde per un modello sociale europeo che assicuri la piena protezione di tutti i lavoratori, di tutti i consumatori e di tutte le persone che vivono in Europa e «una transizione giusta per i lavoratori e le regioni industriali, dall’attuale modello economico a un’economia moderna, vivace, verde e socialmente giusta, in cui il nostro capitale umano e naturale siano valorizzati».
Richieste particolarmente ambiziose quelle appena descritte? Visto quanto scritto nel Libro Bianco sul “Futuro dell’Europa”, reso pubblico da Junker a poche settimane delle celebrazioni di Roma, sembrerebbe di sì, visto quanta poca attenzione si dedica agli aspetti sociali. Ma sulle questioni ambientali riguardanti il percorso verso la de-carbonizzazione, avviato con l’Accordo di Parigi, e la lotta al cambiamento climatico il Libro Bianco della Commissione europea è stato sin dall’inizio più esplicito e coraggioso dei 28 Stati membri.
Infatti, se si analizzano le varie versioni delle bozze della Dichiarazione di Roma – dalla concept note di La Valletta del 3 febbraio all’ultima stesura del 16 marzo, prima della chiusura del testo definitivo – si rileva che ci sono volute lunghe trattative per fare anche solo accenno nel documento condiviso alla sostenibilità e ai cambiamenti climatici, che pur fanno parte degli impegni internazionali acquisiti contenuti nell’Agenda 2030 e derivanti dall’Accordo di Parigi sul clima. Alla fine i 28 Paesi “hanno trovato una quadra”, come si dice, e se l’ambiente non veniva nemmeno citato nella concept note di La Valletta, nel testo ufficiale reso pubblico il 25 marzo uno dei quattro capitoli dedicati all’impegno concorde verso un’Unione più forte e resiliente si intitola “Un’Europa prospera e sostenibile”, mentre nel testo si dice che bisogna costruire un’Europa in cui «l’energia sia sicura e conveniente e l’ambiente pulito e protetto». Nel quarto capitolo, dedicato ad un’Europa più forte su scala mondiale, si cita, poi, una politica climatica globale positiva. È poco o tanto? È poco, se si pensa che alcuni temi dovrebbero essere ormai acquisiti da tutti. È tanto, se si pensa allo stato di salute dell’Unione. Quel che è certo è che non solo le istituzioni europee, ma i singoli paesi devono ancora fare molto per rispondere alla grande maggioranza dei cittadini che reclamano un’Europa giusta, sostenibile, democratica e inclusiva.
*Responsabile Ufficio relazioni istituzionali WWF Italia
Pubblicato su Sbilanciamoci! il 31 marzo 2017.