di Andrea Baranes
In Italia il rapporto debito/PIL ha ripreso rapidamente a crescere dopo lo scoppio della crisi del 2007. Il maggiore aumento in precedenza risaliva all’inizio degli anni ’80, con il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia e l’abbattimento dei controlli sui movimenti di capitale. Wall Street diventava la calamita finanziaria del mondo, obbligando l’Italia ad alzare i tassi di interesse per competere con quelli promessi oltreoceano.
L’abbattimento dei controlli è anche uno dei motivi per cui non riusciamo a diminuire il cuneo fiscale, per quanto ogni governo lo metta in agenda per contrastare la disoccupazione. Difficile farlo se buona parte delle entrate derivano dal lavoro perché non si possono tassare i capitali o anche solo parlare di una patrimoniale. Le conseguenze non sono solo sull’occupazione, ma anche in un aumento delle diseguaglianze legato alla disparità di trattamento tra rendita e reddito.
L’impossibilità di tassare i capitali finanziari non ha impatti unicamente sui lavoratori, ma anche sulle imprese: se avvio un’attività produttiva devo mettere in conto un elevato peso fiscale, che diventa decisamente minore in ambito finanziario. Una distorsione che contribuisce all’ipertrofia finanziaria e alla mancanza di investimenti nell’economia.
Un discorso che riguarda anche le banche, per le quali è più semplice investire sui mercati finanziari che non concedere prestiti a famiglie e imprese che spesso rimangono escluse dall’accesso al credito. Dovremmo allora interrogarci su come rilocalizzare la finanza e fare sì che il risparmio venga impiegato nei territori in cui è raccolto. Questo significa controllare i movimenti di capitale.
Un effetto distorsivo tanto più marcato quanto più grandi sono i patrimoni interessati. I piccoli risparmiatori spesso non vanno oltre l’investimento in titoli di Stato – e quando lo fanno magari vengono truffati come insegnano i recenti casi bancari. All’estremo opposto, gli High Net Worth Individuals o individui con un alto patrimonio hanno a disposizione stuoli di gestori e consulenti per fare fruttare i loro milioni, e magari per metterli al riparo dal fisco in qualche paradiso fiscale.
Lo sviluppo di queste giurisdizioni è l’emblema stesso dell’abbattimento di ogni controllo sui movimenti di capitale. Tra gli enormi problemi creati c’è la concorrenza sleale tra le imprese che lavorano su scala nazionale e le multinazionali che possono insediarsi in territori di comodo per nascondere i profitti. L’esperienza insegna che inseguire l’isoletta tropicale di turno è come fermare una valanga a mani nude. Per contrastare i paradisi fiscali occorre agire dove originano i capitali che sfruttano i vuoti legislativi per sottrarsi al fisco, e dotarsi di strumenti per controllarli.
La questione non riguarda solo l’economia legale, ma in maniera se possibile ancora più inaccettabile quella sommersa e criminale. Come spiegare la facilità con cui le mafie posso organizzare i peggiori traffici in giro per il mondo? Dal riciclaggio alla corruzione, l’assenza di controlli sui movimenti di capitale è nuovamente al cuore del problema.
Un problema non solo fiscale o finanziario. Gli stabilimenti produttivi vengono dislocati nelle zone dove sono minori le legislazioni ambientali o sul lavoro. L’assenza di controlli sui flussi di capitale è un ricatto alla capacità dei governi di operare nell’interesse dei propri cittadini. Il risultato è da un lato delocalizzazioni selvagge e deindustrializzazione, dall’altro una vera e propria corsa verso il fondo tra nazioni in materia fiscale, ambientale, sociale, dei diritti del lavoro.
Una corsa che non si svolge unicamente su scala internazionale ma anche europea. A dispetto dello stesso nome di “Unione” europea, ci troviamo in una situazione di competizione esasperata. Una competitività che si gioca sul costo del lavoro, vista l’impossibilità di svalutare la moneta, ma prima ancora che origina dalla completa libertà di movimento dei capitali all’interno di un’Europa in mezzo a un guado, impantanata in una unione monetaria e dei capitali senza unione delle normative e dei diritti.
A fronte di questa situazione, tra chi vuole uscire dall’euro alcuni sottolineano come sarebbe possibile un’uscita da sinistra a condizione di introdurre contestualmente dei controlli sui flussi di capitale. È curioso che quello che dovrebbe essere al centro della battaglia politica venga però presentato come una mera condizione al contorno, come se fosse di facile realizzazione. Per dirla con una battuta, chi dice che uscire dall’euro è facile, basta introdurre dei controlli sui movimenti di capitale e poi si può uscire, ricorda chi dice che disegnare un cavallo è facile, basta disegnare un unicorno e poi cancellare il corno. Ancora più incomprensibile la posizione di chi, da destra, vuole uscire pensando di potere recuperare una qualche “sovranità monetaria” mentre i capitali sono liberi di varcare le frontiere a proprio piacimento.
L’elenco potrebbe continuare. Che si guardi alle politiche economiche o monetarie, al lavoro, al welfare, alla legalità, alla giustizia sociale, alla mancanza di investimenti, l’assenza di qualsiasi controllo sui movimenti di capitale è al cuore del problema. A dispetto della sua centralità, il tema difficilmente approda nel dibattito pubblico, per difficoltà tecniche ma prima ancora culturali. Dopo oltre tre decenni di sbornia neoliberista, alcune questioni sono ormai date per assodate, o peggio ancora considerate “naturali”, come se fossero regolate da leggi immutabili quali quelle della fisica. Al cuore di un mercato finanziario che si pretende asettico e oggettivo c’è il dogma della completa libertà di movimento dei capitali.
Occorre cambiare radicalmente approccio, e non solo per arginare lo strapotere finanziario. Nel momento in cui le peggiori destre fanno fortuna parlando di controllare i flussi di esseri umani e dall’altra parte dell’Atlantico si millantano guerre commerciali per fermare i flussi di merci, sarebbe ora di affermare che i controlli che bisogna introdurre sono sui flussi di capitale. Non è possibile continuare a giocare in difesa, così come non è possibile rimanere in attesa della prossima crisi finanziaria, per poi magari invocare salvataggi pubblici. È ora di contrattaccare e di aprire uno spazio politico a sinistra, ponendo il controllo dei movimenti di capitale al centro dell’agenda come primo fondamentale passo per ribaltare gli attuali inaccettabili rapporti di forza tra finanza e democrazia.
Pubblicato su Non con i miei soldi il 15 marzo 2017.