Malta sta esercitando in questo semestre il difficile compito di presiedere l’Unione europea e si rivela attrezzata in politica estera più di quanto si potrebbe aspettare da un paese grande come la provincia di Prato. Bisognava forse immaginarselo, Malta è la patria dei cavalieri di San Giovanni che dalla Terrasanta cristiana del 1200, fra mille vicissitudini sono arrivati indenni all’epoca moderna, malgrado qualche recente controversia col Papa. Senza avere più un territorio, salvo qualche palazzo alla Valletta, i cavalieri di Malta sono oggi equiparati a stato sovrano godendo perfino di un posto di osservatore alle Nazioni Unite.
Malta non ha però oggi nulla a che fare con l’antico ordine cavalleresco. È una repubblica di fresca indipendenza dal domino inglese, cominciato nel 1800 con le guerre napoleoniche e concluso appena nel 1974. Un paese nato dal contrasto che ha saputo conservare e fondere le sue diverse anime, l’una araba e l’altra europea, che si rispecchiavano già nella ripartizione della Valletta dei cavalieri, dove ogni “langue” aveva un quartiere. Francesi, italiani, spagnoli e portoghesi si sono alternati nel governo dell’isola, con una breve presenza degli inglesi, che poi però come al solito si sono chiamati fuori anche di lì.
Malta è figlia di due assedi, quello degli ottomani del 1565 e quello delle forze dell’Asse nel 1940. Da entrambi è uscita intera ma trasformata, costretta a fare i conti con i suoi assedianti che sono anche sempre stati i suoi vicini. È forse questa dimestichezza con mentalità diverse che permette ai maltesi di districarsi negli imbrogli europei e forse l’Europa dovrebbe guardare a Malta come un esempio. Ancora oggi l’’isola è una sintesi di Mediterraneo, con qualche scoria inglese, come la guida a sinistra, una bevanda insipida che si chiama Kinnie e un’inglese levigato da bocche use ad altri suoni. Primo fra tutti l’italiano, che stava per diventare la seconda lingua dell’isola se non fosse stato per la guerra mondiale. Ma anche oggi a Malta è difficile incontrare qualcuno che non lo parli almeno un po’. Da queste parti la gente impara le lingue per osmosi, ascoltandole, imitandole, non sta a studiarle sui libri. Così può capitare al turista italiano di sentirsi dire in perfetto italiano: “mi scusi, io l’italiano lo parlo ma non lo so”.
In questi anni, anche grazie ai fondi UE, La Valletta è risorta, si è ripulita e ravvivata e si sta preparando a diventare capitale europea della cultura nel 2018, proprio l’anno in cui l’UE celebrerà l’anno del patrimonio culturale. In tempi in cui le forze oscure del terrorismo islamico distruggono la memoria delle nazioni facendo saltare per aria monumenti che sono la testimonianza di una memoria condivisa fra popoli diversi, celebrare il patrimonio culturale non è un esercizio intellettuale ma un atto politico. Paradossalmente, proprio ora che con le nuove tecnologie possiamo ricordare tutto, registrare tutto, dalle immagini ai suoni, e perfino ricostruire tutto grazie alle stampanti tridimensionali, il mondo sembra divenire sempre più affamato di memoria. Nel turbine delle migrazioni, dei rimescolamenti portati dall’economia globalizzata, del sincretismo culturale e della relativizzazione di ogni valore, abbiamo tutti più bisogno di radici, di appartenenza, di sapere chi siamo o di inventarci una tradizione cui aggrapparci come a una zattera nella tempesta. Il patrimonio culturale ci offre questo riparo e usato in modo intelligente ci fa anche capire che ogni identità è una transizione verso un’altra. Monumenti come Palmira ne sono la più perfetta espressione: strati di civiltà diverse, commistioni, ibridazioni che mostrano quanto nella storia i grandi propulsori di civiltà fossero sempre luoghi caratterizzati dalla mescolanza, dalla varietà, crogioli di differenza in cui si elabora il nuovo.
Malta è sempre stata un piccolo laboratorio di questo tipo, forse proprio perché piccolo, sfuggito indenne al tritacarne della storia. Il suo patrimonio è soprattutto immateriale, sta nello spirito della gente, nella lingua, nella mentalità più che nelle testimonianze architettoniche, che pure sono tante e ricche, dal neolitico al barocco passando da romani, punici e arabi. Proprio in questi giorni accade a Malta un fatto forse futile ma che sta suscitando un grande dibattito nell’isola. Gli eccezionali marosi degli ultimi giorni hanno fatto crollare uno dei simboli dell’isola, la cosiddetta Azure Window, un arco di roccia naturale a picco sul mare nell’isola di Gozo, fotografato in tutte le cartoline. Anche questo è patrimonio, segno del tempo inciso sul paesaggio e da quando l’Azure Window non c’è più, i maltesi si sentono orfani. Al punto che il governo sta ora considerando di recuperare le rocce crollate ed esporle in un museo facendone una sorta di installazione artistica in quel che il Times of Malta ha definito un’operazione di “augmented reality”. Anche questa, segno dei tempi. La realtà, mille volte riproducibile, non ci basta più. Ne vogliamo altra, migliore, aumentata, su misura. E la brutalità della natura che con il suo scorrere ci fa sentire la nostra insignificanza ci spaventa forse ancora di più delle bombe dei terroristi che distruggono templi e polverizzano statue. Perché quella no, non la possiamo fermare.
Così la piccola isola di Malta, afflitta fra i suoi sassi crollati, ci spinge oggi a riflettere sul senso del patrimonio e della memoria, su quanto di noi dobbiamo conservare e quanto invece ci conviene dimenticare. Un dilemma antico, ci ragionava già Nietzsche nel suo “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”. Che non vada a finire, come presagiva il filosofo tedesco, che a troppo ricordare non riusciamo più a vivere.