La Commissione europea ha presentato il primo marzo un Libro Bianco sul futuro dell’Europa, testo che presenta cinque scenari, ognuno corredato con una descrizione su come potrebbe essere la UE nel 2025; è un testo che purtroppo delude.
I cinque scenari possono essere grosso modo riassunti come status quo, definito eufemisticamente “l’Ue continua con l’agenda positiva delle riforme”: si parla di investimenti, di controllo delle frontiere esterne, rafforzamento del mercato interno e delle infrastrutture dei trasporti e dell’energia, insistendo in particolare sugli aspetti dell’efficienza energetica e delle rinnovabili; si continua a legiferare, si ritirano vecchie leggi se risultano obsolete e si cambia la legge sugli aiuti di stato restituendone l’autorità per il 90% a stati e regioni (allarme rosso, questo esercizio si concentra su ambiente e politiche sociali e le conseguenze di una parziale ri-nazionalizzazione degli aiuti di Stato non è di per sé una bella notizia per noi italiani, vedi alla voce concessioni autostradali). Secondo la Commissione, gli svantaggi principali di questo scenario sono per lo più la lentezza nelle decisioni e i conflitti dovuti alle procedure di unanimità, dato che, se tutti sono d’accordo, l’agenda positiva continuerà a dare “risultati concreti”. È più che evidente che non c’è alcuna intenzione di ammettere che è proprio questa continuità nelle politiche l’elemento che sta minando la legittimità della Ue: alla fine questo scenario, come anche il n.2 e 4, sono quelli che, parafrasando Prodi che comparava l’Ue a una bicicletta che può solo avanzare, ci porterebbero a cadere di sella.
Il secondo scenario “Niente altro che il mercato unico” si basa sul presupposto che sia possibile rinunciare a una serie di politiche comuni (dalla migrazione alla libera circolazione) in nome di una Ue esclusivamente concentrata sul mercato interno e sulla deregulation, addirittura introducendo l’idea davvero bislacca di ritirare automaticamente due leggi vigenti per ogni nuova legge proposta. La Commissione stessa dichiara che questo approccio potrebbe portare a ulteriori conflitti in materia di ambiente, politiche sociali o tasse, a ridurre il diritto alla libera circolazione dei lavoratori e dei cittadini e potrebbe perfino arrivare allo smantellamento dell’eurozona, al ritiro della Ue da organismi internazionali e a un nuovo sistema di relazioni bilaterali o per gruppi di paesi. La Commissione nota correttamente che prendere decisioni sarebbe così più semplice, ma aumenterebbe lo squilibrio fra aspettative e realtà e diritti acquisiti dei cittadini verrebbero eliminati. Questo scenario è da brivido e non funzionerebbe mai. Quando nel 1987 venne adottato l’Atto Unico con l’idea di completare il mercato interno e come scelta minimalista rispetto al Trattato per l’Unione Europea proposto da Altiero Spinelli e adottato dal parlamento europeo nel 1984, fu subito chiaro che non era possibile parlare di mercato unico senza introdurre degli standard ambientali e sociali il più omogenei possibile. Tanto è vero che la base di molte normative ambientali è proprio il mercato unico. Illuminanti in questo senso gli esempi scelti per illustrare questa opzione: gli standard di qualità dell’aria e acqua non sono più comuni, niente più politica commerciale né dello sviluppo comune. Anche per la Commissione, sebbene non lo dica esplicitamente, l’illusione del mercato unico “only” porterebbe a termine ad una accelerazione dello smantellamento della Ue.
Il terzo scenario, per molti il preferito dal Presidente Juncker, ha un titolo promettente: “Quelli che vogliono fare di più fanno di più”. Poi però scatta di nuovo l’allarme rosso, quando si parla di “varie coalizioni di volenterosi” che collaborano per lavorare insieme su aree come difesa, sicurezza interna, politiche sociali. Anche analizzando gli esempi portati nel testo, si capisce bene che praticamente questo è lo scenario di una “Europe à la carte” e non quello delle due velocità (una integrata, l’altra meno): si parla di 12 paesi che cooperano sulle auto connesse e sull’internet delle cose, 6 paesi che sviluppano un drone per scopi militari, un gruppo di paesi che mette insieme un corpo di polizia; un altro un codice comune per il business… Conseguenze? I cittadini perderebbero o acquisirebbero diritti a seconda di dove si trovano e chiaramente si porrebbero questioni sul chi decide, però almeno si potrebbero raggiungere più risultati. Questa versione dell’Europa a più velocità sarebbe veramente complicata da far funzionare, non solo a causa del caos normativo e legale che comporterebbero vecchie e nuove normative tra vecchi e nuovi obblighi. In questo scenario la dimensione intergovernativa sarebbe ovviamente dominante e la tentazione di fare accordi fra stati fuori dai Trattati, come è anche stato per Schengen, la Convenzione di Dublino e il Fiscal Compact, potrebbe diventare sistematica e dunque sistematica sarebbe anche la tendenza all’esclusione di Commissione, Parlamento e Corte di Giustizia (come è stato per anni per Schengen) sia nella decisione che nell’applicazione delle norme. La Commissione sostiene che l’unità a 27 sarebbe cosi garantita, come pure la capacità di agire e prendere decisioni. Io penso invece che anche questo scenario si tradurrebbe nella pratica, almeno per come viene spiegato qui, con un forte ridimensionamento dell’ambito del “potere e sovranità condivisi”, dato che tale sovranità in realtà non esisterebbe davvero e si avrebbe in pratica una decisione di condividerla provvisoriamente e a seconda dei temi attraverso una cooperazione tra governi. In questi giorni di preparazione alla Dichiarazione di Roma, sembra che si vada verso un accordo che limita il ricorso alle “cooperazioni rafforzate” entro i limiti precisi, ma di difficile applicazione, delle regole previste dai Trattati. Vedremo. Certo è che a mio modo di vedere, la definizione delle “velocità” di integrazione non deve essere stabilita sulla base delle voglie passeggere dei governi o dei temi. Ma deve essere il frutto di un patto federativo, dello stesso valore di quello firmato a Roma nel 1957, ma più avanzato sulla strada della messa in comune della sovranità e delle strutture democratiche.
Il quarto scenario “Fare meno più con maggiore efficacia” risponde allo stesso approccio ideologico della deregulation e di una ancora più marcata presa di distanza dall’idea della Ue come un progetto comune di carattere politico e anche “emotivo” (cosa questa che si ritrova in tutti gli scenari, visto che si privilegia l’idea di una UE economicamente “utile”). Si cerca di rendere più esplicito il fatto che non si può né si deve accusare la Ue di cose che non fa perché non ne ha il potere. L’esempio scelto è lo scandalo delle emissioni della Volkswagen, esempio davvero bizzarro, perché esistono già competenze Ue, solo che non si sono trovate le maggioranze politiche per provvedere legislativamente a dotarsi degli strumenti necessari! I settori su cui si prospetta di lavorare di più come Ue a 27 sono quelli del commercio, della sicurezza, della difesa, della migrazione, dell’asilo, della ricerca e della difesa dei confini, della de-carbonizzazione e del digitale, magari prevedendo dei bilanci ad hoc. Anche l’Eurozona potrebbe essere più forte e organizzata, ma continuazione della differenza di salari e condizioni sociali. Tra quelli da abbandonare ci sono gli aiuti di stato, sviluppo regionale (ciao ciao fondi di coesione), salute pubblica, lavoro, regole sociali nei settori non direttamente legati al mercato unico, ma la lista non è esaustiva. Tra i problemi di questo approccio riconosciuti dal testo, sta la difficoltà di mettersi d’accordo sulle priorità: personalmente credo che questo problema, unito al fatto che è veramente difficile spezzettare le competenze e smantellare e rinazionalizzare un pezzo di politica o competenza senza toccarne anche altri, renda questo scenario oltremodo irrealistico.
E infine c’è lo scenario 5, “Fare di più insieme”, che parte dalla constatazione che nessun paese da solo può fare fronte alle sfide dell’oggi e dunque che, armati di questa nuova consapevolezza, i 27 debbano lavorare su una lista di competenze che già esistono, ma decidendo in modo più rapido e coeso. I trattati commerciali sono ratificati solo dal parlamento europeo (cosa peraltro già possibile oggi) si stabilisce una unione per la Difesa, la Ue continua (!?) ad esercitare la sua leadership nel campo dei cambiamenti climatici e allarga il suo ruolo come principale donatore (anche questo già perfettamente possibile oggi). Il bilancio viene “significativamente” aumentato e liberato dai contributi nazionali, si costruisce un sistema di sanzioni “dirette” più forti per violazioni del diritto Ue, maggiori risorse per la ricerca comune, grandi progetti infrastrutturali (!!), maggiore coordinamento in materia fiscale e sociale e supervisione nell’eurozona, ma niente mutualizzazione né condivisione dei rischi in materia finanziaria. Ovviamente si tratterebbe di uno scenario più attraente per noi, ma che resta fortemente limitato da un approccio minimalista rispetto a quello che si potrebbe fare in termini di nuove politiche e di esplicita difesa e rafforzamento dei diritti dei cittadini europei; anche in questo, che dovrebbe essere lo scenario più ambizioso, si parla poco di mettere l’Ue al centro di una riscossa soprattutto sociale e culturale, con l’esplicita ambizione di battere i nazionalismi autoritari e razzisti che spuntano ovunque.
Ed é questa mancanza di ambizione della Commissione, che sembra proprio di un contabile ansioso di risparmiare e di non disturbare i “manovratori”, il punto critico di questo testo: Juncker e la sua squadra non paiono più avere la voglia di indicare le scelte sul futuro della Ue e di svolgere il ruolo di iniziativa e di stimolo, se non addirittura di guida e rappresentanza dell’interesse comune degli europei, che è loro attribuito dal Trattato. E paiono anche non cogliere la dimensione davvero rivoluzionaria dei cambiamenti in atto nel mondo. Come una think-tank qualsiasi, anzi come un Segretariato neutrale e neanche tanto creativo, con un linguaggio spesso poco preciso giuridicamente e contraddittorio, presenta i suoi 5 scenari, nella convinzione che da qui al 2025 sarà sostenibile un tran-tran ideologico a favore di politiche che non prospettano nessuna rottura con quelle attuali (a parte qualche tocco sociale e ambientale qua e là), e per di più non indica quello che preferisce e per il quale è pronta a battersi. Nel testo si dice che ognuna delle opzioni può sovrapporsi e accavallarsi, che deliberatamente si fa la scelta di non discutere di processi istituzionali o legali, e che ci si rifiuta di entrare nella discussione su “più o meno Europa” perché è un approccio troppo semplicistico. In ognuna di queste tre affermazioni sta un limite grave del Libro Bianco, poiché i “pomi” del contendere oggi sono proprio il tema della capacità della UE di capire quali scelte politiche servano davvero ai cittadini, il che significa almeno aprire alla possibilità di politiche diverse dalle attuali; quello della sovranità e della democrazia europea, e quindi sapere se si sceglie di resistere alle spinte alla ri-nazionalizzazione autoritaria attraverso una contrapposizione esplicita e una decisa scelta di apertura e trasparenza, o sposandone in parte le ragioni e rimanendo nell’ambito di una cooperazione fra governi; e, se si vuole o no proseguire sulla strada di un’Unione “sempre più stretta”, come previsto dal Trattato di Roma, come, a che condizioni e con chi.
Insomma, in questo Libro Bianco la Commissione non ha il coraggio di immaginare una via da seguire e di sostenerla, né dal punto di vista delle politiche né delle istituzioni. Juncker stesso ha dichiarato che se ne avesse scelta una lo avrebbero massacrato, rinunciando dall’inizio a entrare nella lotta aperta e preferendo aspettare all’autunno per pronunciarsi. L’intenzione è dunque quella di fare arrivare i 27 Stati membri a una definizione delle condizioni dello stare insieme, sottintendendo che smantellare la Ue sarebbe peggio; per fare questo, la Commissione apre come abbiamo visto anche alla possibilità di rinunciare a qualcosa delle competenze attuali. E’ interessante notare peraltro, che in nessun momento, neppure quando si chiede di prepararsi alle elezioni europee, Juncker propone che le istituzioni Ue interloquiscano direttamente con i cittadini europei o con la società civile organizzata. I suoi interlocutori sono i governi. Certo, ho ricevuto da lui una bella lettera in quanto co-presidente del Partito Verde europeo, chiedendo riscontro di eventuali discussioni interne sulle sue proposte. E noi accetteremo la sfida. Ma questo Libro Bianco non ha nulla a che vedere con la forza e la lungimiranza (al di là del giudizio sul merito delle sue proposte) del Libro Bianco sulla crescita, competitività e occupazione presentato da Jacques Delors nell’ormai lontano 1993.
La scelta di non scegliere può essere utile ad aprire un dibattito, ma solo se c’è qualcuno
disposto a raccoglierlo e organizzarlo. Non pare, ma forse è troppo presto per dirlo, che il Libro Bianco sia in grado di rappresentare il punto focale della discussione in corso. In vista di Roma, in attesa delle elezioni in Olanda, Francia e Germania, e viste le tensioni con la Turchia, la conversazione verte sostanzialmente sul rapporto con il Gruppo di Visegrad e la discussione per ora molto generica sull’Europa a una, due o più velocità. La scelta di presentare 5 opzioni, che presentano tutte elementi di grande ambiguità, temo rischi di porre la Commissione fuori tema e forse perfino fuori gioco, perché sono altri che danno le carte.
Ciò detto, è opportuno cercare di sfruttare al meglio l’opportunità che comunque questo testo rappresenta. Nei giorni seguenti alla presentazione del Libro Bianco, vari commenti sono andati nella direzione di un sesto scenario che non è contemplato dal testo di Juncker: quello di un’Europa unita, sì, ma anche democratica e portatrice di politiche e pratiche decisionali radicalmente diverse da quelle attuali, da raggiungere attraverso la ripresa dell’iniziativa “costituzionale” e di una forte mobilitazione in vista delle elezioni europee del 2019. Io penso che sia esattamente quella la direzione in cui andare: nella discussione ci deve essere spazio per l’opzione 6, un governo democratico e sovranazionale capace di portare le politiche comunitarie fuori da una austerità cieca e verso un’azione di trasformazione dell’economia e della società in senso ecologico e democratico, che metta in primo piano la solidarietà, lavori verdi, efficienza energetica, lotta al cambiamento climatico.
Ma chi può prendersi carico di lanciare questo dibattito e magari preparare uno scenario diverso? In una situazione nella quale la Commissione non è in grado di prendere decisioni e nella quale gli Stati membri sono divisi, è il Parlamento europeo che deve farsi carico di essere il luogo dove iniziare a sviluppare una discussione sul nostro futuro comune e sulle politiche prioritarie dell’Unione europea che vada al di là delle opzioni di Juncker e aperta alla società civile. Non usciremo dall’impasse attuale con 27 discussioni nazionali concentrate sui rapporti di forza fra i governi. Per conto nostro, il messaggio è chiaro: se non si cambiano le maggioranze e le politiche che governano questa Europa e non si abbandona il vincolo per ora insuperabile del voto all’unanimità, non ci sarà altra scelta che quella di un settimo scenario, quello della fine della Ue.
Monica Frassoni è Co-Presidente Partito Verde europeo