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    Home » Non categorizzato » Grecia, la maledizione del debito

    Grecia, la maledizione del debito

    [di Dimitri Deliolanes] Nonostante i vistosi fallimenti, è ancora l’FMI a dettare legge nel paese europeo. E così, dopo anni di austerità, la Grecia sembra ritornata al punto di partenza.

    Redazione</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/eunewsit" target="_blank">eunewsit</a> di Redazione eunewsit
    14 Marzo 2017
    in Non categorizzato
    Greek Economic Crisis

    Greek Economic Crisis

    di Dimitri Deliolanes

    A sette anni di distanza la presenza dell’FMI nell’eurozona ha creato molti più problemi di quanti ne abbia risolti. A cominciare proprio dal caso greco, che sarà segnalato nei libri di storia come il fallimento più clamoroso in una storia, come quella del Fondo monetario, in cui i fallimenti abbondano.

    Nel nostro caso il fallimento ha un nome e un cognome. Si chiama Poul Thomsen ed è l’economista danese che nel 2004 Putin ha cacciato in malo modo da Mosca. Nel caso greco si è posto fin dall’inizio a capo della troika (FMI, Commissione, BCE).

    Thomsen è diventato particolarmente popolare in Grecia, tanto da non poter uscire dall’albergo senza la numerosa scorta, non solo per il suo umorismo scandinavo («uno stipendio di 300 euro va benissimo, in fondo la Grecia è un paese balcanico») ma anche per la sua grande cordialità, in particolare verso esponenti dell’oligarchia locale con cui si intratteneva quasi quotidianamente.

    Ma l’elemento che farà passare Thomsen nella storia della scienza economica sono le sue azzeccatissime previsioni sull’andamento dell’economia greca dopo la cura da lui stesso studiata. Già nel primo anno di cura FMI, il 2010, le previsioni di Thomsen per il 2011 parlavano di una “lieve flessione” del -2,6% del PIL. La flessione ci fu ma era del -7,1%. Il capace economista non si fece scoraggiare e si lanciò in un’altra previsione per il 2012. La flessione sarebbe stata ancora più lieve, sul -1,1% del PIL. Inutile dire che fu del -6,6%. Nel 2013, il governo ultraliberista formato da Antonis Samaras (estrema destra di Nuova Democrazia) ed Evangelos Venizelos (destra PASOK) doveva essere premiato in qualche modo e l’astuto Thomsen decretò che quell’anno avrebbe segnato una ripresa dell’economia con il +2,1% del PIL. Va da sé che il dato reale fu -3,3%. Nel 2015, quando invece governava il “populista” e “demagogo” Alexis Tsipras, l’economia, nelle intenzioni del serio economista, doveva andare a rotoli con un -2,3%. Invece, l’anno chiuse con -0,2%.

    Non che i pastrocchi del danese siano passati inosservati. L’allora capo economista dell’FMI Olivier Blanchard fin dal 2010 aveva segnalato la clamorosa mancanza di un adeguato studio dell’economia greca e l’applicazione cieca dei modelli d’intervento nei paesi ex comunisti, come la famigerata “svalutazione interna” attraverso l’abbattimento del costo del lavoro. Ma il periodo “socialista” di Strauss-Kahn era finito e cominciava quello coerentemente liberista della Lagarde.

    Le critiche diventeranno pubbliche nel 2013, quando iniziò la lunga lista delle “autocritiche” dell’FMI sul caso greco, che non comporteranno alcun cambiamento di indirizzo. Thomsen viene premiato diventando responsabile per l’Europa e, nell’ultimo rapporto dell’Independent Evaluation Office dell’FMI dell’anno scorso, i fallimenti del Fondo vengono attribuiti a «impreviste reazioni di corporazioni organizzate», a «seri problemi incontrati nell’applicazione del programma» ma anche a «ripetute crisi politiche», tutti affetti che «non sono stati presi in considerazione nell’elaborazione del programma». Effettivamente, se la tua esperienza si limita alla Repubblica ex jugoslava di Macedonia è un po’ difficile capire le dinamiche politiche e sociali di un paese europeo.

    La verità però è che la maledizione dell’FMI e l’inconsistenza economica di Thomsen continueranno a lungo a tormentare l’eurozona, anche nel caso in cui quest’ultima riesca a uscire integra a questa ventata di antieuropeismo di estrema destra che sta scuotendo l’Unione europea. Essendo la Grecia il punto di rottura del suo intervento, è là che il nodo diventa sempre più ingarbugliato e gli equilibri più instabili.

    L’FMI ha smesso di finanziare la Grecia fin dall’estate del 2014. Il motivo è che, essendo passata la Grecia da un indebitamento all’altro e vedendo crollare il suo PIL del 26%, alla fine il debito greco è arrivato a livelli del tutto insostenibili. Il regolamento del Fondo non permette di finanziare paesi con debiti di questa natura. Tutto questo è avvenuto all’insaputa dello stesso FMI e del suo responsabile europeo.

    Nel gennaio di quest’ anno, il Fondo ha presentato il suo nuovo rapporto sulla Grecia, il cui debito si prevede che raggiunga il 170% del PIL nel 2020. L’FMI critica l’atteggiamento tenuto fino a quel momento dall’Eurogruppo sul debito e chiede delle «coraggiose misure di alleggerimento», come l’estensione del periodo di sospensione del pagamento degli interessi fino al 2040, della restituzione fino al 2070 e l’abbassamento degli interessi a un tasso inferiore all’1,5% per un trentennio.

    Parallelamente, l’FMI contesta le previsioni della Commissione che parlano di un aumento del PIL greco del +2,7% alla fine dell’anno. Contesta anche, come “non realistica”, la richiesta, prevista negli accordi con i creditori del luglio 2015 (il cosiddetto “terzo memorandum”) di ottenere avanzi primari del 3,5% per un periodo di tempo indefinito. Per avere questo tipo di risultati e avviare finalmente la ripresa dell’economia greca, l’haircut del debito deve essere accompagnato, nelle proposte dell’FMI, da nuove misure di austerità, come ulteriori tagli alle pensioni e abbassamento del limite di esenzione fiscale da 8.600 euro l’anno a 5.000. Si tratterebbe di misure “preventive” da applicare solo nel caso in cui le previsioni pessimistiche dell’FMI si dovessero miracolosamente avverare, ma da approvare subito in Parlamento, in modo da “dare un segnale” ai mercati.

    Ad Atene il sospetto è che questo rapporto sia redatto in maniera contradditoria e contenga richieste al limite del buon senso, come un Parlamento che legifera su misure “eventuali”, per uno scopo preciso: l’FMI non vede l’ora di uscire dal programma greco e anche dall’eurozona. Sarebbe la maniera più elegante per coprire i pasticci di Thomsen e lasciare all’oblio l’intervento più fallimentare della sua storia.

    In Europa il rapporto dell’FMI non è piaciuto. Il Consiglio europeo ha voluto inviare la sua risposta a metà febbraio. Avrebbe dovuto rimanere riservata ma è stata pubblicata dall’agenzia di notizie cipriota. Si tratta di un documento estremamente duro, in cui si parla di «errori grossolani nel calcolo del deficit, del tasso d’inflazione, del tasso di sviluppo, delle entrate, ecc.». Per Bruxelles, non c’è alcun bisogno di nuovi tagli alle pensioni, poiché la riforma già in vigore comporta un risparmio che si aggira sullo 0,7% del PIL, mentre sarebbe «del tutto erronea» la valutazione dell’FMI secondo cui la progressività delle imposte sul reddito alimenterebbe l’evasione fiscale. Ovviamente, il Consiglio ritiene «del tutto realistico» l’avanzo del 3.5% per l’anno prossimo.

    Non tutti gli europei però sono stati così risoluti nel respingere le proposte della Lagarde. C’è la destra tedesca, per esempio, che ritiene l’uscita dell’FMI dal programma greco non ammissibile. Schäuble ha più volte sostenuto la tesi secondo la quale il “terzo memorandum” del 2015 prevedeva esplicitamente la presenza dell’FMI. Se poi il Fondo esce dal programma, ci dovrebbe essere un nuovo passaggio al Parlamento tedesco, cosa assolutamente da evitare in periodo preelettorale. Questa è la versione di Schäuble, perché secondo quella dell’ufficio legislativo del Bundenstag non ci sarebbe bisogno di un nuovo passaggio in Parlamento. Ma è evidente che la CDU non vuole esporsi in periodo elettorale ad attacchi che del tipo “il contribuente tedesco è rimasto solo a finanziare gli sfaticati greci”.

    Rimanga quindi l’FMI in Grecia, anche se il suo contributo rimane ancora indefinito. Nel periodo che va da novembre fino all’Eurogruppo del 20 febbraio, Schäuble ha scatenato un’offensiva potente, prontamente ripresa da buona parte dei media italiani, rispolverando il dimenticato Grexit. Il ministro tedesco puntava su una campagna elettorale tutta incentrata sulle misure “preventive” che devono prendere gli “sfaticati greci”, rifiutando però rigorosamente ogni discussione sul debito.

    Per Tsipras, lo abbiamo ripetuto tante volte, l’alleggerimento del debito rimane il punto centrale per ogni ipotesi di uscita dalla crisi. Egli però è consapevole che si tratta di un obiettivo non facile da raggiungere. Il fatto è che il debito monstre, che attualmente si aggirerebbe sui 321 miliardi, si è creato non in uno ma in tre successivi indebitamenti ed ogni volta i creditori erano diversi: titoli pubblici in mano alla BCE (14,7 miliardi) o in mano alle banche centrali degli Stati membri (5,8), prestiti da parte dell’EFSF (130,9) e poi dell’ESM (21,4), dal FMI (14,4) e, la cosa più delicata, ben 52,9 miliardi prestati da paesi dell’eurozona su base bilaterale.

    Già un anno fa l’Eurogruppo aveva deciso di dividere il debito in tre categorie: a breve, a media e a lunga scadenza. Nel gennaio scorso i consigli dell’EFSF e dell’ESM hanno annunciato misure per il debito a breve termine: la trasformazione cioè in fissi dei tassi di interesse del debito greco da loro detenuto. Secondo il responsabile del ESM Klaus Regling, grazie a queste misure nel 2060 l’indice del debito sul PIL sarà diminuito di ben 20 punti. Ma quello che gli europei volevano sentire da lui era che la misura di “alleggerimento” non avrebbe comportato alcun tipo di danno nelle loro finanze.

    È evidente che, su queste basi, ogni discorso serio sul debito non si può fare nel periodo preelettorale. Anche Atene, seppure a malavoglia, lo ha compreso. Tanto più che, nelle intenzioni di Tsipras, l’alleggerimento del debito greco deve avere una precisa valenza politica che dia un segno di cambiamento in tutta l’eurozona.

    Il problema dell’FMI però rimane e diventa sempre più acuto quando incontra il sostegno interessato dei falchi come Schäuble. Alla riunione dell’Eurogruppo del 20 febbraio, il ministro tedesco delle finanze è stato finalmente silenzioso e si è riusciti a raggiungere un compromesso: le misure sarebbero state votate al Parlamento greco, ma la loro applicazione sarebbe dipesa dalla situazione dell’economia greca nel 2019. Atene ha anche ottenuto che per ogni misura di risparmio fiscale si sancisse un’equivalente misura di sviluppo. Non a caso, la riunione dei ministri delle finanze dell’eurozona era stata preceduta una telefonata di Tsipras verso la Merkel con la preghiera di tenere a bada il suo ministro, come lo stesso premier greco ha rivelato in Parlamento. Pochi giorni più tardi, l’incontro tra la Merkel e la Lagarde, a sancire la permanenza del Fondo nell’eurozona.

    E così siamo tornati al punto di partenza. I negoziati intrapresi tra Euclides Tsakalotos e la ex troika (ora quadriga) ad Atene agli inizi di marzo ben presto si sono arenati di fronte all’insistenza dell’FMI di liberalizzare i licenziamenti. Mentre i rappresentanti delle istituzioni europee hanno adottato un atteggiamento di non coinvolgimento nel negoziato. Alla fine di febbraio, commentando i risultati dell’Eurogruppo, buona parte della stampa tedesca sosteneva che Berlino aveva decretato silenziosamente la fine dell’austerità. Probabilmente, la cancelliera ha tenuto la notizia per sé, evitando di informare il resto del mondo.

    Pubblicato su Sbilanciamoci! il 14 marzo 2017. 

    Tags: bcecommissioneeuropaFmigreciaoneuro

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