Roma – Una minestra riscaldata di larghe intese, o una zuppa inedita fatta con gli ingredienti dell’euroscetticismo di Lega e M5s? È difficile prevedere ora quale piatto verrà fuori dalla pentola della politica italiana alle prossime elezioni politiche. L’unica certezza è che quella pentola bolle, ma al suo interno c’è una sorta di caos calmo nel quale il governo Gentiloni sembra al riparo da rischi, e dunque destinato a durare fino a fine legislatura.
L’idea di un voto anticipato sembra ormai definitivamente accantonata da Matteo Renzi, segretario uscente del Pd, impegnato a riottenere la guida del partito nella battaglia congressuale in cui si è ufficialmente lanciato dal Lingotto di Torino, nel fine settimana.
Da quel palco, l’ex presidente del Consiglio ha confermato pieno sostegno al suo successore. Certo, rimane l’incognita di come l’esecutivo risponderà a Bruxelles che chiede una manovra da 3,4 miliardi di euro entro fine mese. È un ingrediente in grado di stravolgere gli equilibri nella pentola, visto che Renzi continua a considerare “un errore politico” l’eventuale ricorso a misure che facciano aumentare la pressione fiscale. Vedremo l’evoluzione nelle prossime settimane.
Intanto, il candidato in pole per la guida del Pd, definisce (con contorni molto sfumati, in verità) le sue idee su quale sarà il futuro del partito nel caso ne riconquistasse la guida. “Essere di sinistra non significa rincorre un totem del passato”, né “andare sul palco con il pugno alzato cantando Bandiera rossa. Quella è una macchietta, non è politica”, sentenzia con lo sguardo rivolto a dalemiani e bersaniani scissionisti. Anche se parlare di alleanze è “politichese”, Renzi affronta il tema per precisare che “non è possibile replicare modelli del passato”, come l’Ulivo invocato “dagli stessi che lo hanno segato”.
La chiusura è netta nei confronti di chi ha abbandonato il partito. Verso costoro è anche più esplicita Debora Serracchiani, la vicesegretaria uscente, che ammonisce: “Chi è uscito dalla porta, sbattendola, non pensi di rientrare dalla finestra”. Si fa più stretto il margine anche per un’alleanza con l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che lanciando il suo soggetto politico, Campo Progressista, al Pd chiede di chiarire una volta per tutte se intenda stare con la sinistra o voglia procedere con il ministro degli Esteri Angelino Alfano e il senatore di Ala Denis Verdini come compagni di viaggio.
Precisazione che non arriva, lasciando intendere che il Pd deciderà con chi allearsi solo dopo il voto, e questo a prescindere da chi vinca il congresso. Posto che le ipotesi di affermazioni nette di un centrosinistra o di un centrodestra sono irrealistiche, il governatore della Puglia, Michele Emiliano, punterebbe a un dialogo più con i Cinque stelle che con Forza Italia. Il guardasigilli Andrea Orlando è invece orientato a sinistra, pur non volendo chiudere del tutto le porte al centro.
Quella delle mani tese al centro quanto a sinistra è la posizione del ministro della Cultura, Dario Franceschini, che nel Pd ha un certo peso e finora sta lavorando ai margini della scena. Mantiene l’asse con Renzi, ma sembra ritagliarsi in silenzio un ruolo da collante per una futura coalizione che, dopo il voto, rendesse possibile una maggioranza di larghe intese, che spazi da Forza Italia al Pd tenendo insieme tutto ciò che sta in mezzo.
Secondo il ministro degli Esteri Angelino Alfano, proprio lì al centro “si sta aprendo uno spazio”, per effetto del dialogo tra il Pd e la sinistra, da un lato, e del tentativo di ricucitura tra il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi e il leghista Matteo Salvini. È il capogruppo dell’Ncd alla Camera, Maurizio Lupi, a indicare le caratteristiche del nascente soggetto di centro come proposta “autonoma che sia alternativa alla sinistra e non rincorra il populismo di Salvini e di Meloni”.
Lupi lancia frecciate a Berlusconi, chiedendosi come farà “a dire a Tajani che siamo sovranisti e bisogna tornare alla lira”. È proprio su una nuova lira, infatti, che l’ex Cavaliere punta per coniugare l’orientamento europeista di Forza Italia – che con Antonio Tajani appunto, detiene la presidenza del Parlamento europeo – con la vocazione “sovranista” del Carroccio e dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Un Salvini che difficilmente ridimensionerà la propria lotta contro l’euro accontentandosi di una moneta parallela come propone Berlusconi, e che ancor più difficilmente rinuncerà al ruolo di leader di un’alleanza che, proprio per questo, sembra destinata a saltare. anche per questo, come dimostra il contestato intervento a Napoli condito da scontri, lo stesso Salvini sta cercando di dare una dimensione più nazionale al proprio consenso fino ad oggi limitato al Nord.
Più facile e naturale sarebbe un incontro tra l’euroscetticismo leghista e quello pentastellato. Incontro che però, per la dichiarata ambizione del M5s a voler ottenere da solo la maggioranza, non potrebbe che definirsi solo dopo il risultato delle urne. L’ipotesi, già ventilata da Eunews da un po’ di tempo, è inverosimile se si prendono per buone le categoriche smentite che arrivano dal movimento di Beppe Grillo, ma sta piano emergendo anche nelle analisi di attenti osservatori, tra i quali Angelo Panebianco.
Al politologo, quella di un governo a guida M5S, ma non in solitaria, sembra l’ipotesi più accreditata al momento, anche per effetto della legge elettorale con cui si voterà. Appare ormai difficilmente modificabile l’inerzia verso un ritorno al sistema proporzionale che, fa notare Panebianco, “conviene a tutti”. Ai parlamentari per avere più chance di rielezione, ai partiti, in particolare quelli più piccoli, per scongiurare la propria scomparsa e, anzi, assicurarsi magari un peso sproporzionato alla propria presenza parlamentare con un eventuale governo di coalizione.
Sarebbe una minestra riscaldata da prima repubblica, appunto, che però a Bruxelles piacerebbe molto più di un’indigesta zuppa di euroscetticismo cucinata da Grillo e Salvini. Oltre all’incognita sulla legge elettorale, però, saranno anche le richieste economiche che l’Ue avanzerà – e soprattutto il modo in cui il governo deciderà di rispondere, tanto con la correzione da 3,4 miliardi quanto con la legge di bilancio da varare in autunno – a definire il piatto che sarà servito dopo il voto.