Fra le tante sentenze che stanno cambiando la nostra vita ce n’è una che è sfuggita ai più, pronunciata da un tribunale inglese su un argomento che può sembrare una facezia e dal punto di vista giuridico un’ovvietà: i tassisti di Uber devono sapere l’inglese per esercitare il loro mestiere in Gran Bretagna.
La società statunitense aveva fatto ricorso contro la regola imposta dal governo britannico di subordinare a un test linguistico il rilascio della licenza agli autisti privati, i nostri NCC. Ma la giustizia britannica ha sancito che la conoscenza dell’inglese è necessaria per garantire la qualità del servizio e la sicurezza del cliente. Tutto bene dunque, tutto ovvio. Se non fosse che l’argomentazione del colosso americano per contestare la normativa linguistica era la presunta difficoltà del test per i tanti emigrati stranieri che perseguivano un ingaggio con Uber. Secondo il colosso americano la severità del test equivaleva a una discriminazione razziale. Per Uber dunque poco importa se un suo contrattuale parla la lingua del paese in cui vive e lavora. In fin dei conti, per tutte le grandi multinazionali del mondo globalizzato la società ideale è quella dove la responsabilità, la partecipazione, la consapevolezza di cittadino non esiste ed è sostituita da un’uguaglianza verso il basso, perché quel che conta, quel che tiene insieme la gente, deve essere solo il mercato, non lo Stato.
Siamo arrivati, in quaranta anni di liberismo selvaggio, a quel che perseguiva la Thatcher quando diceva: “Una cosa che si chiami società non esiste”. Eccola qui la non-società della Thatcher dove in nome della non-discriminazione razziale si giustifica il mantenimento della gente nell’ignoranza e nella sudditanza. Il bene alla rovescia, cioè il male: non è l’ignoranza il male da combattere ma la discriminazione dell’ignorante.
Nell’evoluzione del tardo capitalismo post-industriale, non c’è più neppure il prodotto, è rimasto solo il servizio, prestato in condizioni di servaggio da una folla di lavoranti senza identità e senza diritti che in comune hanno solo l’ignoranza. La società che vorrebbe la nostra tradizione di civiltà è invece quella dove tutti i cittadini, a prescindere dalla loro lingua madre, sono istruiti nella lingua della comunità nazionale in cui vivono e tutelati nella loro lingua di minoranza. Se sono emigrati, liberi di coltivare la propria cultura ma partecipi di quella maggioritaria, capaci di prender parte alla vita politica e di informarsi, di difendere i propri diritti e di esprimere le proprie opinioni.
Questa volta Uber ha perso la battaglia giuridica contro il tribunale britannico ma non la guerra con cui sta imponendo nel mondo intero un nuovo modello di lavoro subordinato. In tutta questa faccenda è significativo e per un verso rassicurante che l’estrema linea di difesa del diritto, che è anche ormai la linea di difesa dello stato di diritto, sia la cultura, nella sua espressione più netta: la lingua.
Siamo qui di fronte allo scontro fra due cosmopolitismi: quello che deporta persone da giacimenti di povertà per catapultarli in paesi lontani e ingaggiarli nelle moderne piantagioni di cotone dell’economia globalizzata e quello invece del cittadino del mondo che si sposta liberamente e consapevolmente, con gli strumenti culturali e linguistici necessari per capire i mondi nuovi in cui si trova a vivere. Ancora di più dunque nel mondo contemporaneo lo studio delle lingue e della lingua ha un senso civico ed è strumento di difesa contro la disgregazione della società. E se i vecchi Stati ormai mostrano le corde e sono incapaci di proteggerci da queste derive è proprio nella conservazione dell’identità, più che nazionale culturale che possiamo trovare una riscossa.
L’identità culturale europea, cosmopolita e poliglotta, quella che due guerre mondiali hanno dissipato ma che sopravvive nella nostra tradizione culturale e che l’Unione europea propugna con la sua etica di cancellazione delle frontiere, da Schengen a Erasmus. Il globalismo certo non lo si arresta ma con la forza della nostra cultura lo si può cambiare e farne un cosmopolitismo civico dove l’uguaglianza verso l’alto diviene il comune denominatore.