Stanno accadendo fatti inattesi nell’Unione europea. Per la prima volta, con ogni probabilità, un leader con una posizione di vertice, il presidente del Consiglio europeo, sarà scelto senza essere stato indicato dal suo Paese. Un dibattito simile è in corso per quanto riguarda la presidenza dell’Eurogruppo, che potrebbe toccare a qualcuno che non è ministro delle Finanze in carica e forse, al limite anche in questo caso, senza il sostegno del governo del suo Paese.
Il primo caso è quello di Donald Tusk, reietto per la maggioranza al governo della Polonia, e invece sostenuto con determinazione da quasi tutti (c’è qualche dubbio sull’ungherese Viktor Orban) gli altri governi. I polacchi del partito di maggioranza Diritto e Giustizia non lo vogliono più per ragioni di politica interna, mentre per ragioni di politica europea (tante, che non andremo qui ad elencare se non quella della stabilità) gli altri primi ministri lo vogliono confermare per un secondo mandato di 30 mesi.
La situazione è paradossale, accidentale, non programmata, ma un fatto è accaduto: il presidente del Consiglio europeo sarà completamente slegato dal suo governo, non ne avrà l’appoggio, non ne subirà l’influenza. Sarà un vero presidente finalmente scelto a maggioranza, senza dover scendere a compromessi o patteggiamenti. Almeno in questa conferma, mentre ce ne furono di compromessi alla sua prima nomina. Si è creata una situazione di emergenza alla quale, una volta tanto, l’Unione europea sembra saper rispondere con prontezza, ed aprendo una storia nuova. Non sarà probabilmente la prassi nel futuro, ma è comunque un precedente.
Una situazione nella quale Tusk potrà giocare carte importanti. Per l’Unione e per il suo futuro politico. Potrà scegliere se continuare ad essere un presidente un po’ grigio come è stato sino ad oggi, oppure tentare il tutto per tutto e cercare spazio politico e di visibilità. Sarà molto meno vincolato di quanto lo fosse al momento della sua nomina. Chi conosce bene le cose polacche ipotizza che possa giocarsi la carta del rientro alla politica nazionale con le prossime elezioni presidenziali della primavera 2020, pochi mesi dopo la scadenza naturale del suo mandato a Bruxelles a fine novembre 2019. Ma se sceglierà la strada del protagonismo, in un panorama nel quale i governi nazionali in importanti Paesi dopo le elezioni politiche di quest’anno potrebbero per diversi motivi essere più deboli di ora, ciò avrà anche un risvolto che potrebbe essere positivo per il rilancio dell’Ue: darebbe a Bruxelles una voce che potrà fare da stimolo a politiche comuni più efficaci, non avendo nulla da perdere.
La seconda questione, della quale abbiamo già parlato in questo giornale, è quella della possibilità che Jeroen Dijsselbloem sia confermato alla guida dell’Eurogruppo, anche se non sarà più ministro nel governo che uscirà dalle urne olandesi del 15 marzo. Già il fatto che se ne parli è una novità, a prescindere dal valore della scelta sulla persona. Se ai 19 Paesi dell’euro quel presidente sta bene, perché cambiarlo, poi proprio quando si discute di un ministro delle Finanze dell’euro?