a cura di Giampaolo Rossi*
- Crisi degli Stati. Impossibilità di risposte semplificate
Si sono moltiplicati negli ultimi tempi gli appelli a mantenere e rafforzare l’Unione europea o a ridimensionarla nettamente, e sono molte le proposte elaborate da studiosi e anche dagli organi istituzionali dell’Unione. La questione è divenuta centrale anche nel dibattito politico dei singoli paesi, soprattutto dopo la Brexit e l’elezione di Trump, perché si sono diffusi i movimenti antieuropeisti e antiglobalisti.
In un contesto nel quale le nuove tecnologie hanno accelerato le possibilità di comunicazione e favorito le migrazioni, i diffusi timori di perdita della sicurezza garantita dai contesti stabili e chiusi moltiplicano gli orientamenti c.d. populisti ai quali si oppongono coloro che ritengono utile e comunque inevitabile la globalizzazione.
Va detto subito che un dibattito politico impostato in termini di contrapposizione tra populismo (o “sovranismo”) e globalismo è sbagliato perché fondato su due alternative entrambe impraticabili: il sovranismo teorizza in modo nostalgico un assetto che è ormai divenuto impossibile o comunque del tutto non conveniente; il globalismo non tiene conto della realtà istituzionale degli Stati che, per quanto indeboliti, restano gli unici destinatari della domanda sociale e l’unica istanza in grado di difendere i valori fondamentali a partire dal principio democratico.
La crisi degli Stati autosufficienti non determina la nascita di un ordine mondiale che vi si sostituisca.
Sono soprattutto gli Stati di piccole dimensioni a mostrarsi inadeguati, per la loro incapacità strutturale di incidere su fenomeni che comunque li coinvolgono, come la finanza internazionale, le alterazioni del clima, le migrazioni, le convenienze nella produzione e negli scambi. È osservazione diffusa che il sistema mondiale sta evolvendo verso la creazione di Stati di livello subcontinentale rispetto ai quali quelli di minor dimensione avranno una posizione vassalla.
Questo non comporta una unificazione che sacrifichi le diversità; al contrario, solo un’Europa unita può salvaguardare le specificità dei diversi territori.
- Inadeguatezza dell’attuale assetto dell’Unione
L’Unione europea è impreparata ad affrontare questo fenomeno. Costruita avendo come scopo primario quello di evitare conflitti armati fra i paesi membri, il suo ordinamento sostanziale è volto in prevalenza a regolare e dirimere i conflitti economici tra gli stessi. Le sue funzioni entrano in contraddizione con l’esigenza degli Stati di rispondere alla domanda sociale. L’Unione europea viene avvertita dalle popolazioni come un potere negativo rispetto alle loro attese.
Nei decenni del liberismo le istituzioni europee, compresa la Corte di Giustizia, sono state indotte a confondere l’obiettivo del mercato comune con quello del mercato tout court, disarmando ulteriormente gli Stati. L’invadenza della regolamentazione normativa e l’espansione nelle funzioni operata dalla Corte di Giustizia sono state per certi profili più unificanti di quelle che si hanno negli ordinamenti federali.
Si è creato un disallineamento fra il potere e le responsabilità: il primo è suddiviso fra Unione europea e Stati (mentre solo su questi gravano le responsabilità). Ai vincoli posti non corrisponde l’esercizio di una responsabilità da parte dell’Europa (si impediscono imprese di grandi dimensioni ma non se ne formano altre di livello europeo). La somma dei poteri dei paesi membri e dell’Unione è inferiore a quella complessiva che hanno Stati extraeuropei. Vi è un vuoto di potere.
Le aperture verso nuove funzioni (sviluppo, tutela dei diritti, difesa e sicurezza) contenuta nel Trattato di Lisbona sono state in larga misura disattese.
La creazione dell’euro in assenza dei presupposti richiesti dalla moneta unica (bilancio, politica fiscale ed economica, e ancora prima, convinzione e coinvolgimento popolare) ha rappresentato una importante spinta verso l’unificazione, ma, non essendosi questa realizzata, ha accentuato lo squilibrio fra poteri e responsabilità.
La crisi economica ha imposto all’Unione una revisione delle sue precedenti politiche e l’adozione di una serie di misure di aiuto agli stati e di stimolo allo sviluppo non previste dai trattati ma con appositi accordi di diritto internazionale.
Il disegno istituzionale attuale è confuso e disorganico:
- Obiettivi e criteri di una riforma
È evidente che una riforma è indispensabile e non dilazionabile. È necessario che l’Unione, che si è dilatata in profili non indispensabili ed è stata rinchiusa in se stessa, perda alcuni rigonfiamenti non essenziali e si giri verso l’esterno.
È altrettanto evidente che la riforma non si può realizzare attraverso una modifica dei trattati che porti a una Costituzione europea, che è già stata respinta e ancor più lo sarebbe nell’attuale momento. Questo tentativo, oltre che inattuabile, sarebbe anche sbagliato perché di nuovo avvertito come una imposizione dall’alto realizzata senza la necessaria partecipazione dei popoli europei.
D’altra parte, come si vedrà, un approccio ispirato a una impostazione più concreta può rilevarsi ancora più incisivo di quello che delinei un risultato finale. Si concretizza così la bella indicazione di Robert Schuman (1950) richiamata dal Libro Bianco della Commissione europea del 1 marzo 2017: «L’Europa non potrà farsi in una volta, né sarà costruita tutta insieme. Essa sorgerà da realizzazione concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».
Occorre quindi procedere con una serie di misure praticabili all’interno dei trattati e con altre, concordate fra alcuni Stati, al di fuori dei trattati, ma all’interno del quadro europeo, attraverso la cooperazione rafforzata prevista dal trattato di Lisbona (art. 20) che richiede la partecipazione di almeno nove stati e una procedura, peraltro troppo farraginosa, per approvarla.
Si potrebbe, in alternativa, ricorrere alla cooperazione strutturata permanente prevista per il settore militare (artt. 42 e 46).
In ulteriore alternativa si potrebbe procedere più semplicemente ad accordi interistituzionali come si è già fatto nell’ultimo decennio.
La riforma dovrebbe porsi i seguenti 3 obiettivi:
A) Instaurare un rapporto diretto fra le istituzioni europee e i cittadini, in modo che questi ne possano apprezzare la diretta utilità nella soluzione dei loro problemi e in modo che si superi il gap di democraticità attualmente avvertito.
B) Creare un sistema organico che individui i punti di unità e rispetti quanto al resto le scelte diverse (“sovrane”) dei singoli Stati,
- B1) rimuovendo a tal fine i debordamenti eccessivi che si sono verificati,
- B2) e ampliando i poteri di azione verso il resto del mondo.
C) Creare una Europa a cerchi concentrici con diversi livelli di unificazione che tengano conto, comunque, delle diversità economiche e politiche dei singoli paesi.
- Le misure
4.1. Unificazione del debito. Mantenimento dell’euro
Numerosi studi hanno dimostrato gli effetti negativi della fine dell’euro o, per i paesi che lo abbandonassero, del ritorno alla moneta nazionale.
Non mancano opinioni diverse che trovano il loro fondamento nella insostenibilità dell’attuale situazione, ma a queste tesi va obiettato che:
- l’insostenibilità verrebbe rimossa se si varassero le riforme qui indicate;
- l’uscita dall’euro, ipotizzando un aumento dell’inflazione del 30%, si tradurrebbe in un corrispondente aumento del debito perché negli ultimi anni il debito è stato contratto con la clausola del diritto alla restituzione in euro (v. rapporto Mediobanca);
- le transazioni importanti verrebbero fatte con altra moneta forte;
- la capacità di resistere alle fluttuazioni e alle speculazioni finanziarie internazionali sarebbe molto più debole.
Non vi può essere però una moneta unica con debiti separati, con tassi di emissione diversi, perché questo squilibra i bilanci e determina un indebitamento progressivo dei paesi in difficoltà, determinando così un circolo vizioso: per restare nell’euro i paesi troppo indebitati devono porre in essere misure restrittive che impediscono lo sviluppo e quindi non consentono di ripianare il debito.
L’unificazione del debito si potrebbe realizzare come proposto da Charles Wyplosz nel progetto PADRE (Politically Accettable Debt Restructuring in the Eurozone) con la seguente modalità: la BCE, emettendo obbligazioni sui mercati a tassi moderati, acquisterebbe l’intero debito pubblico dei paesi dell’eurozona e lo trasformerebbe in una perpetuity senza interessi. Gli Stati sarebbero chiamati ad estinguere il loro debito con la BCE in un tempo molto lungo, semplicemente rinunciando alle c.d. “risorse di signoraggio” (il flusso di risorse reali che un governo incassa quando stampa moneta (L. Becchetti). Oltre a queste risorse, potrebbe essere destinata all’estinzione del debito una quota del risparmio che ciascun paese realizzerebbe nel pagamento degli interessi e la parte residua andrebbe vincolata a investimenti pubblici (G. Dallera).
In una versione più soft l’acquisto dei debiti dei paesi membri da parte della BCE potrebbe essere limitato al 60% del loro debito, ma ciò complicherebbe l’assetto istituzionale perché sommerebbe i debiti europei con quelli residui dei singoli Stati.
La misura andrebbe accompagnata dalla istituzione di una agenzia di rating europea, anche per evitare che la contabilizzazione dei debiti non tenga conto dei risparmi/debiti delle famiglie, come avviene in altri stati (Giappone, USA).
L’emissione di un debito comune con un tasso unificato e un rating europeo consentirebbe di azzerare le differenze di tasso che oggi sono insostenibili. Ogni paese in funzione della quantità di debito consolidato pagherebbe la sua quota di interessi. Ciò consentirebbe di diminuire in maniera considerevole il totale degli interessi pagati dall’Europa ma anche nel tempo di avere un rating migliore non solo per gli stati ma anche per le imprese, che non pagherebbero più il rating paese. La BCE dovrebbe prevedere emissioni uniche con unica cedola. Probabilmente la Germania ne potrebbe avere un iniziale svantaggio ma la possibilità degli altri paesi di fare investimenti con il risparmio degli interessi aumenterebbe i consumi interni e favorirebbe l’economia europea e con essa le imprese tedesche (U. Ambrosini).
E’ poi evidente che gli stati perderebbero ogni possibilità di fare debiti ulteriori; del resto ciò è già previsto dalle norme costituzionali nazionali e non comporterebbe quindi una diminuzione di sovranità, ma ne impedirebbe solo un uso distorto.
È altrettanto evidente che altro presupposto sarebbe l’armonizzazione delle politiche fiscali e del welfare dei singoli Stati, ma solo nel loro valore complessivo e nel rapporto fra entrate e spese, restando agli Stati il potere di decidere, in quegli ambiti, la distribuzione della ricchezza e di articolarsi nel sistema delle loro autonomie in vari centri di spesa.
Di particolare importanza è stabilire in che modo l’Europa, una volta unificato il debito, potrebbe essere garantita da eventuali trabordamenti di singoli Stati nel rapporto entrate/spese. Un’ipotesi che è stata avanzata è che in tal caso gli Stati tornerebbero al vecchio regime del debito. Un’altra ipotesi si basa su una forma di commissariamento da parte europea.
La soluzione (che non ne esclude altre) potrebbe consistere nel riconoscere alla Corte di giustizia, sempre che non lo facciano le Corti nazionali, il potere di annullare, su ricorso proposto dal ministro del tesoro europeo (v. poi) o da altri Stati membri, le leggi nazionali approvate senza la richiesta copertura.
4.2 Il rafforzamento della Banca centrale europea (BCE) e la creazione dell’unione bancaria
Dalla adozione delle misure indicate nel punto precedente deriverebbe un consistente rafforzamento delle competenze della BCE che verrebbe a svolgere anche funzioni ancora non esercitate o esercitate in misura parziale e transitoria, come il quantitative easing.
In ogni caso si dovrebbe portare a compimento il processo di riforma già avviato e che, invece, ha subito una interruzione.
A fronte della crisi economica e finanziaria apertasi nel 2008, l’Unione ha dato una risposta rapida e con strumenti innovativi, di particolare efficacia. L’avvio della unione bancaria ha rappresentato una parte essenziale della risposta delle istituzioni alla grande crisi, per la giusta considerazione che il sistema bancario è parte essenziale di ogni società economicamente evoluta; di interesse non solo per i debiti sovrani e per i grandi capitali, ma per ciascun cittadino.
Di qui una serie di misure organiche. Le principali, come è noto, sono: l’istituzione delle tre autorità europee di vigilanza, il Codice unico europeo (single rulebook), il Meccanismo unico di supervisione (SSM), il Meccanismo unico di risoluzione (SRM), accompagnate da una serie di misure particolari (come i requisiti patrimoniali), anch’esse rapidamente attuale.
Dei tre pilastri essenziali (la supervisione bancaria comune, il procedimento di risoluzione delle crisi bancarie, il sistema di garanzie sui depositi) solo i primi due sono stati approvati. Il primo (SSM) è pienamente operativo. Il secondo (SRM), invece, mostra grossi limiti operativi in ragione della esiguità del Fondo di risoluzione e delle prassi di risoluzione invalse, che, valutando gli NPL a prezzi ben al di sotto dei tassi di recupero storici, trascinano in risoluzioni bancarie che sarebbero solvibili se valutate a prezzi di realizzo realistici. Su quest’ultimo aspetto, si dovrebbe proporre una bad bank europea che sia disponibile anche ad acquistare grandi quantità di NPL a prezzi non penalizzanti per le banche. Manca infine del tutto il terzo pilastro e si incontrano resistenze nella approvazione della direttiva, di cui si discute la bozza presentata dalla Commissione nel novembre 2015: la c.d. EDIS. European Deposit Insurance Scheme.
Il raggiungimento della piena efficacia del SRM, con il varo della bad bank europea, il completamento del terzo pilastro risultano decisivi per un corretto funzionamento complessivo. L’unione bancaria, infatti, può operare appieno solo se i tre pilastri funzionano contestualmente; non solo la parte destinata a rompere il circolo vizioso tra debiti sovrani e crisi finanziarie. In particolare, la messa in opera della bad bank europea e un sistema comune di garanzie sui depositi è l’unico modo per prevenire una crisi sistemica in caso di crisi bancarie rilevanti in uno Stato membro, ma destinate a contagiare velocemente le altre economie perché non superabile attraverso il singolo strumento di salvataggio interno (bail-in). Se la nuova vigilanza bancaria (il Meccanismo unico di supervisione) può comunque reggersi da sola, in quanto funzione non finale, le difficoltà insorgono ove i procedimenti per superare la crisi non siano accompagnati da un sistema comune di garanzie (bad bank europea ed EDIS, European Deposit Insurance Scheme).
Dopo il particolare impegno delle istituzioni europee e degli Stati membri che aveva caratterizzato il periodo 2010-2014, è necessario ora completare l’unificazione, garantendo la solidarietà effettiva di tutti gli Stati, o meglio la comune consapevolezza della impossibilità, per tutti, di lasciare le riforme incompiute.
L’unione bancaria si conferma quale importante tassello delle complessive politiche economiche dell’Unione europea: portarla a compimento è essenziale per non vanificare l’imponente programma di riforme finora realizzato e per rassicurare i cittadini europei sulle effettive garanzie comuni, ben maggiori delle garanzie nazionali.
4.3 Europa sociale. Immigrazione
I diversi organi dell’Unione (Commissione, Corti) hanno avuto, nelle materie che incidono in ambito sociale, che soddisfano cioè diritti sociali ma sono anche in vari casi mercati di interesse privato, un indirizzo non lineare.
Mentre sono chiare le regole dettate in materia economica, la disciplina in materia sociale è spesso la risultante, in via di eccezione, dei vuoti di regolazione o delle deroghe alle regole dei mercati. Ciò rende opaco il senso della disciplina da applicare e della linea politica scelta dall’Europa. Tale quadro incerto è reso infine ancor meno prevedibile dall’approccio case by case della giurisprudenza europea e le incertezze rifluiscono nelle normative e nelle pronunce giurisdizionali nazionali.
Ne deriva una grande quantità di zone grigie fra servizi di interesse economico e servizi privi di tale rilevanza, che rende imprevedibile la qualificazione di certi servizi come aventi o non aventi interesse economico, con effetti negativi sulla identificazione dell’assetto normativo in vigore.
Fra le tematiche di rilevanza sociale un punto nodale e di estrema delicatezza riguarda l’inadeguatezza delle politiche sull’immigrazione, che andrebbe affrontata anzitutto con aiuti ai paesi di provenienza e poi con strumenti di intervento per una gestione comune dei flussi migratori gestiti direttamente dall’Unione. Le politiche dovrebbero disinnescare, con forti sanzioni, le dinamiche auto protettive degli Stati e al contempo supportare le esigenze degli Stati membri che si trovano in posizione di frontiera. La questione è resa ancora più complessa dal consolidarsi del riconoscimento di diversi diritti sociali ai migranti ad opera delle direttive e della giurisprudenza delle Corti europee senza che a questo facciano riscontro il sostegno finanziario agli Stati.
Le misure possibili sono le seguenti:
– Va chiarito il rapporto fra servizi di interesse economico e servizi privi di tale rilevanza. La scelta in ordine alla qualificazione nell’uno o nell’altro senso, per lo meno nei settori costituenti il fondamento dei modelli nazionali di stato sociale (istruzione, sanità, cultura, sicurezza sociale e servizi alla persona), dovrebbe essere restituita alla decisione politica statale. In tali settori l’individuazione dell’interesse economico dovrebbe essere recessiva in caso di scelta politica statale di sottrazione delle prestazioni alle logiche di mercato.
– Va realizzato a questo proposito un restringimento delle funzioni esercitate dagli organi europei, anche se la scelta statale dovrebbe essere verificabile sotto il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità.
– Il punto precedente non è da intendersi nel senso di una ritirata assoluta dell’Unione dalla materia dei servizi sociali ma, piuttosto, come una acquisizione definitiva del tema della loro centralità anche rispetto alla concorrenza. In questa prospettiva, in alcuni limitati ambiti e a garanzia di diritti sociali fondamentali, occorre anzi prevedere un intervento diretto dell’Unione attraverso la definizione di livelli minimi delle prestazioni che fissino una base indefettibile di tutela da rispettarsi da parte di tutti gli stati.
– Alcune prestazioni possono anche essere ritenute di “livello europeo” (quando, ad esempio, richiedono una massa critica sovranazionale) ed essere direttamente erogate in istituzioni dell’Unione, come nel caso della ricerca e del trattamento delle malattie rare. Altre possono invece essere erogate a livello nazionale (quando sia necessaria una erogazione di prossimità), ma essere comunque ritenute di dimensione europea e ricevere un finanziamento da parte dell’Unione, come nel caso dei servizi di prima accoglienza agli immigrati (accoglienza in strutture con caratteristiche predefinite, prima assistenza sanitaria, avviamento al lavoro, housing).
– Per contenere i rischi che l’ampliamento dei diritti connessi alla cittadinanza europea metta in crisi la sostenibilità dei sistemi statali di welfare, con prestazioni richieste da cittadini europei in movimento, si potrebbe prevedere un Fondo di perequazione europeo. Questo potrebbe attivarsi in caso di superamento di una certa soglia di accesso alle prestazioni da parte di cittadini di stati membri diversi da quello che eroga le prestazioni.
– Un fondo perequativo potrebbe essere istituito a sostegno della mobilità transnazionale dei soggetti in cerca di impiego e dei cittadini europei economicamente inattivi, al fine di alleviare il carico fiscale sugli stati di destinazione e di allontanare la minaccia (e neutralizzare la scusa) del turismo sociale.
– Una questione che merita una particolare attenzione e richiede un adeguato approfondimento è quella della retribuzione soggettiva anticiclica. La principale proposta da tempo sul tappeto è quella di un sistema europeo di assicurazione sociale contro la disoccupazione frizionale-congiunturale-ciclica, comunque non strutturale, in alcuni settori determinati.
– Quanto al resto il ruolo dell’Europa nella lotta alla disoccupazione, soprattutto giovanile, è connesso allo sviluppo delle politiche industriali e infrastrutturali.
4.4 Sicurezza interna e esterna, frontiere, flussi migratori
Fra le varie proposte in circolazione sono ormai sufficientemente maturate, e anche in parte già approvate dagli organi europei, quelle relative alla sicurezza interna ed esterna, alla gestione delle frontiere europee (dazi, ingressi) e dei flussi migratori.
Sembra ormai acquisita l’idea di dar vita a livello europeo a una forza militare, a una unione doganale e politica di frontiera, a servizi di intelligence e di sicurezza comuni e non mancano alcune proposte operative (stato maggiore europeo, apposite agenzie, revisione degli accordi di Dublino).
Ciò che va sottolineato, in coerenza con quanto esposto in precedenza, è che le strutture europee dovrebbero superare la soglia del mero coordinamento, che si è dimostrata in passato inutile e velleitaria. Il coordinamento andrebbe effettuato per le quote che resterebbero di spettanza dei singoli stati, ma si dovrebbe dar luogo anche a organismi direttamente operativi, pluricomposti (nel senso della provenienza) dagli stati del cerchio che dà vita al programma.
Questi organismi dovrebbero rispondere direttamente alle autorità europee che vi sarebbero preposte.
Quanto alla gestione europea dei flussi migratori questa dovrebbe tradursi anzitutto in una gestione coordinata di aiuto ai paesi di provenienza e in una gestione direttamente europea delle frontiere, del salvataggio, dell’identificazione e della prima assistenza.
Mentre questa funzione sarebbe riservata ai cerchi composti dai paesi che vi aderiscono, quella di ospitalità dei rifugiati, una volta accolti, dovrebbe essere svolta da tutti i paesi dell’Unione.
4.5 Strumenti per una nuova politica industriale e infrastrutturale sostenibile
È necessario che l’Europa sviluppi una propria politica industriale e infrastrutturale utilizzando strumenti e istituti, distinti in impulsi top-down e bottom-up, in discontinuità rispetto all’assetto esistente.
Dal lato delle politiche della domanda (strategie pubbliche e partnership pubblico-privato), si può ipotizzare un programma di European Public Procurement, che porti alla formazione di reti europee (nel settore dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’energia e delle poste) superando la logica puramente transfrontaliera e contribuisca al consolidamento della coesione economica, sociale e territoriale dell’Unione, alla crescita del mercato interno e dell’occupazione, perseguendo allo stesso tempo obiettivi ambientali e di sviluppo sostenibile, anche potenziando in tal senso gli investimenti e le nascenti iniziative a favore dell’occupazione verde.
Le azioni sino ad ora poste in essere in sede comunitaria risultano dirette a creare una connessione tra reti esistenti, che sebbene connesse, rimangono per ampio grado orientate verso una missione nazionale. Ciò finisce per condizionare anche la determinazione degli obiettivi primari da perseguire (come l’approvvigionamento energetico) e le direzioni da intraprendere che risultano essere frutto di compromessi piuttosto che di una visione unitaria, con inevitabili lentezze e possibili ricadute negative sia nel breve, che nel medio/lungo periodo.
In questo quadro può essere utile la costituzione di imprese pubbliche europee (“campioni europei”), ovvero soggetti imprenditoriali guidati da una governance pubblica o mista e da considerazioni che superano la logica della proprietà privata di imprese guidate da una ricerca di redditività di breve periodo.
La problematicità delle imprese europee di interesse generale oggi esistenti sta però nella parzialità dell’utilizzo di simili figure: lungi dall’essere viste come strumenti di una politica industriale europea in senso proprio, sembrano ancorate all’eccezionalità delle misure di intervento richieste in settori particolarissimi e di confine (coerentemente, del resto, con l’impostazione dell’art. 187 TFUE che collega la creazione di imprese comuni alle sole esigenze di ricerca e sviluppo tecnologico).
A tal fine si possono utilizzare le indicazioni fornite, per conto della Commissione europea dallo Sherpas’ Group che ha proposto la definizione di modalità organizzative snelle e meno burocratiche di partenariato (sia mediante forme convenzionali, che attraverso la creazione di consorzi o imprese dotate di personalità giuridica). Occorre cioè superare la logica del mero coordinamento, che per altro si è dimostrata scarsamente efficace, con la creazione di organismi europei, sia pure in forma consortile, aventi una missione propria.
A ciò si aggiunga la possibilità di estendere i settori di intervento, concependo le imprese comuni a pieno titolo come strumenti per politiche industriali e dei servizi infrastrutturali europee, coerentemente con il modello di economia mista che è alle radici dei trattati.
Dal lato delle politiche dell’offerta (sistema di incentivi a favore delle imprese), i fattori di crisi e la fragilità-instabilità del sistema finanziario, richiedono lo sviluppo di nuove traiettorie di investimento in molti campi: infrastrutture materiali e immateriali, riassetto del territorio, razionalizzazione urbana (Intelligent-Sensing Cities), economia circolare. Riguardo a quest’ultimo tema, dovrebbero essere portate a compiuto sviluppo ed effettiva concretizzazione le più recenti linee strategiche europee volte a promuovere processi industriali innovativi per la “simbiosi industriale” e processi virtuosi nel circuito produzione/consumo ispirati all’economia collaborativa.
In tale visione sarebbe essenziale un coordinamento strategico attraverso una vera e propria forma di sistema federale di banche di investimento nazionali (Cassa Depositi e Prestiti, Caisse des dépôts et consignations, Kredit für Wiederaufbau, Instituto de Crédito Oficial), in modo che esso riesca a canalizzare risorse su progetti sovranazionali, sia su progetti a scala locale che siano coerenti con macro-direttrici di livello federale.
Per sfruttare al meglio le potenzialità del Fondo europeo degli investimenti (FEI) e del Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS) è necessario, però, abbandonare la logica strettamente economica che governa l’operato di questi organismi per evitare che la stessa possa imporsi su più ambiziosi obiettivi d’interesse generale, contribuendo, insieme, allo sviluppo dell’economia, della occupazione e della coesione sociale.
Il piano Juncker va ulteriormente sviluppato in queste direzioni.
4.6 Revisione organizzativa. Rafforzamento della democrazia e dell’equilibrio fra poteri e responsabilità
Le tante proposte che sono state avanzate sul riordino della organizzazione dell’Unione europea (rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, ministro del tesoro unico, ecc.) vanno valutate e definite in relazione ad alcuni parametri essenziali: essendo noto che “l’organizzazione segue le funzioni”, il modello organizzativo va impostato in maniera conseguente alle funzioni ipotizzate, nella loro quantità e qualità (equilibrio fra poteri e responsabilità politiche, rapporto diretto con i bisogni delle popolazioni).
Un rafforzamento effettivo del Parlamento europeo, e con esso del tasso di democraticità delle istituzione europee, andrebbe ipotizzato non solo nei suoi poteri (troppo spesso solo consultivi) in rapporto a quelli della Commissione ma deriverebbe di per sé dalle modifiche nelle funzioni dell’Unione come prima prospettate e si estenderebbe così alle funzioni di determinazione delle spese (non solo dell’approvazione del bilancio), alle decisioni organizzative che istituiscano organi dotati di poteri, a quelle sugli standard minimi di assistenza sociale, alle linee generali delle politiche sull’immigrazione e sulle politiche di sviluppo.
La partecipazione dei parlamentari europei alle delibere, nel caso di “Europa a cerchi concentrici” seguirebbe l’assetto delle competenze.
Si potrebbero inoltre varare altre misure ipotizzate dal Parlamento europeo con la risoluzione del 17 febbraio 2017 sul «miglioramento del funzionamento dell’Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona», come l’intensificazione del dialogo fra i parlamenti nazionali e quello europeo, il rafforzamento dell’iniziativa dei cittadini europei e del potere di inchiesta, la trasformazione del Consiglio d’Europa in una seconda Camera legislativa, creando un sistema legislativo bicamerale, e conferendo inoltre alla Commissione un ruolo esplicito di governo dell’Unione.
In questo contesto istituzionale avrebbe senso istituire un ministro del tesoro europeo insieme alla istituzione (come proposto dal Parlamento) di un Fondo monetario europeo, tappa del processo di istituzione di un Tesoro europeo.
Infine, sarebbe opportuno un organico riordino, sul piano organizzativo, del complesso – se non ipertrofico – sistema delle agenzie europee, da un lato, e della comitologia, dall’altro, sul piano orizzontale, nonché dei raccordi tra le reti agenziali e comitologiche dislocate ai livelli europeo, nazionale e sub-nazionale, sul piano verticale, con l’obiettivo di mettere in relazione il più direttamente possibile il livello europeo con quello locale nella direzione di rafforzare reti transnazionali di amministrazioni per lo sviluppo di scelte pubbliche caratterizzate da innovazioni tecniche e sociali.
4.7 Sistema delle fonti. Ruolo delle giurisdizioni, giuridicizzazione del settore pubblico europeo
La primazia del diritto europeo su quello nazionale, che si è consolidata in primo luogo attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia, ha prodotto risultati positivi che vanno al di là del consolidamento del processo unitario.
Si è realizzata la materiale affermazione di uno statuto delle libertà fondamentali, riconosciute ad ogni cittadino dell’Unione. Questo statuto ha trascinato con se una disciplina via via più omogenea di molti altri diritti, anche sociali, sia per la formazione di uno spazio comune di libertà, sicurezza giuridica, giustizia.
Negli ultimi tempi si è verificata però, nel sistema delle fonti e nell’esercizio dell’attività giurisdizionale, una evoluzione che desta delle perplessità.
Fra queste:
- la tendenza al sostanziale ravvicinamento di regime fra direttive e regolamenti: la strutturale flessibilità delle prime ha favorito, in molti casi, una applicazione diretta e immediata della disciplina sovranazionale, dando luogo a un regime di incertezza e ambiguità;
- una espansione sempre maggiore (ad esempio nella materia sociale, dell’istruzione, ma anche nella materia finanziaria) di competenze “deboli” ma rivelatesi, nei fatti, molto pervasive;
- la moltiplicazione di ridondanze contrastanti con il principio di autonomia procedurale degli Stati membri; la creazione in alcune materie (fra tutte quella degli appalti) di principi e di normative di dettaglio che ha portato la giurisprudenza nazionale ad accettare anche regimi non del tutto compatibili con le norme delle Costituzioni nazionali;
- l’utilizzazione di concetti giuridici indeterminati, come “ambiente”, “impresa” e “concorrenza”, per ampliare le competenze dell’Unione;
- la crescita, in seno all’Unione, di una funzione organizzatrice con la quale le istituzioni europee sono in grado di creare formule di coordinamento delle amministrazioni statali al di là del principio di legalità costituzionalmente previsto;
Questi inconvenienti dovrebbero essere rivisti,
- riportando le direttive alla loro natura di indicazione di obiettivi e non di misure di dettaglio;
- riconsegnando agli Stati uno spazio di autentica discrezionalità nell’adattamento della normativa europea;
- prevedendo che vengano seguite le procedure richieste per gli atti regolamentari quando si intendano istituire sedi amministrative, dotate di poteri, non già previste dal diritto primario;
- attivando un canale istituzionale di dialogo fra il Parlamento Europeo e quelli nazionali, con modalità che andrebbero definite in modo efficace e senza un eccessivo appesantimento procedurale;
- escludendo più chiaramente una competenza europea in materia di servizi pubblici non economici, salvo che per la salvaguardia di diritti fondamentali;
- rivedendo la normativa sui servizi (direttiva Bolkenstein) in modo che la libera circolazione dei prestatori di servizi non venga confusa con una liberalizzazione degli stessi che pregiudichi la natura di servizio pubblico di alcuni di questi, quando gli stati vogliano mantenerla.
Altra questione concerne un’esigenza di maggiore giuridicizzazione dell’attività degli organi europei.
L’Unione, così attenta a imporre giustamente agli stati membri regole chiare e trasparenti nell’attività dei loro organi, registra invece dei ritardi nel livello di giuridicizzazione dei propri organi, in particolare nell’uso degli strumenti negoziali (accordi amministrativi, transattivi e normativi con soggetti privati), nella regolamentazione dei procedimenti amministrativi e nelle responsabilità patrimoniali.
Si dovrebbe quindi:
- definire una disciplina comune e generale (sostanziale, procedimentale e processuale) in materia di accordi normativi e amministrativi, anche tramite astrazione dei principali istituti esistenti nei diritti nazionali e dei principi desumibili dalla giurisprudenza europea (anche relativi ai c.d. public contracts);
- adottare, con regolamento, una norma generale che regoli in forma omogenea i procedimenti amministrativi degli organi dell’Unione;
- dare piena attuazione all’art. 340 TFUE sulla responsabilità patrimoniale e sui risarcimenti dei danni cagionati dalle istituzioni europee e dai loro agenti nell’esercizio delle loro funzioni.
Non viene trattata in questo documento la questione del bilancio dell’Unione e delle entrate fiscali perché, essendo anche questo tema derivante da quello delle funzioni, lo si può stabilire solo una volta definite queste ultime.
È evidente che, in caso di trasferimento di funzioni, le risorse corrispondenti dovrebbero essere trasferite dai bilanci degli stati a quello dell’Unione.
Non mancano a riguardo proposte già sufficientemente elaborate, come quella di ipotizzare una tassa europea su certi tipi di transazioni finanziarie o quelle elaborate dal gruppo di studio coordinato da Mario Monti.
Un approfondimento specifico non potrà essere effettuato se non nel quadro d’insieme delle funzioni e dell’organizzazione, con le necessarie articolazioni qualora si ipotizzasse diversi gradi di unificazione, dell’Europa.
- L’Europa a quattro cerchi concentrici
La soluzione di una Europa a cerchi concentrici è preferibile a quella di un’Europa a due velocità. Quest’ultima soluzione, oltre che comportare la rottura dell’Euro, determinerebbe un rapporto conflittuale tra i due blocchi e sarebbe comunque forzante rispetto all’articolazione delle situazioni dei singoli Stati.
Occorre evitare però che l’articolazione delle diversità si traduca in una molteplicità di iura singularia eccessivamente frammentata.
I cerchi dovrebbero quindi unire in modo omogeneo gli Stati appartenenti ai gradi diversi di unificazione superando l’attuale occasionalità del quadro d’insieme.
Dovrebbero escludersi regolamentazioni diverse per singoli stati, salvo che nelle fasi transitorie di ingresso/uscita da uno dei cerchi.
Si possono ipotizzare i seguenti quattro cerchi:
- Il primo, composto dagli stati fondatori e da altri che vi aderiscano, potrebbe esercitare tutte le funzioni attuali, rafforzate e snellite come prima indicato.
- Il secondo, composto dagli altri paesi dell’euro ma senza il rafforzamento ipotizzato.
- Il terzo potrebbe essere strutturato sul modello dell’attuale accordo con Norvegia, Islanda e Liechtenstein, comprenderebbe le quattro libertà fondamentali (libera circolazione delle persone, dei beni, dei capitali e dei servizi) e le norme più importanti nel mercato unico, ad eccezione di quelle su agricoltura, pesca, politiche sociali, giustizia, tasse. Si possono aggiungere forme di collaborazione nei settori dell’ambiente, della cultura e della ricerca. I paesi appartenenti verserebbero un contributo ai fondi di coesione economica e sociale.
- Il quarto potrebbe riprendere il modello dell’accordo con la Svizzera che entrerà in vigore nel 2017 e che dà organicità ai 120 accordi bilaterali già stipulati.
Mentre il terzo cerchio unificherebbe tutto il mercato salvo le eccezioni, questo vi comprenderebbe solo i settori del mercato tassativamente indicati. Ne resterebbero esclusi anche il settore finanziario e parte di quello dei servizi. Resterebbe ferma l’abolizione di controlli di persone alle frontiere.
Potrebbe essere questa la soluzione per inquadrare il rapporto con il Regno Unito (anche se quest’ultimo auspicherebbe una soluzione più vicina al cerchio n. 3).
Le competenze degli organi politici amministrativi e giudiziari europei, modificate come prima indicato, si eserciterebbero pienamente per i primi due cerchi, salvo differenziazione nella partecipazione alle votazioni in relazione alle competenze. Per il terzo e quarto, gli organi europei eserciterebbero solo le funzioni esplicitamente attribuite negli accordi.
- Prospettive ulteriori
Pur così assestato, l’ordinamento europeo dovrà in futuro evolvere ulteriormente e pervenire agli Stati Uniti d’Europa, con una struttura federale fondata sul principio dell’unità nella diversità.
Saranno i popoli a deciderlo, e potranno farlo consapevolmente quando avranno apprezzato i vantaggi dell’unità. La partecipazione popolare dovrà comunque essere promossa con una molteplicità di iniziative, (v. la relazione 27 febbraio 2017 del Comitato di saggi istituito da Laura Boldrini) a partire dai giovani dell’Erasmus, che sono “nativi europei” e non capirebbero una rottura dell’Unione europea, e coinvolgere le forze sociali, culturali e religiose.
L’Europa, pur nelle sue carenze, è la parte del mondo nella quale sono più consolidati i valori fondamentali. Può quindi dare all’intera popolazione mondiale un contributo decisivo di civiltà e di pace.
* Hanno collaborato nella elaborazione delle proposte o con suggerimenti e osservazioni: Alessandra Albanese; Umberto Ambrosini; Auretta Benedetti; Antonio Brancasi; Giuseppina Buia; Patricia Calvo; Paolo Caretti; Carla Casanueva; Giovanni Maria Caruso; Marcos Almeida Cerreda; Mario P. Chiti; Guido Corso; Fulvio Cortese; Francesco Costamagna; Chiara Cudia; Giuseppe Dallera; Marzia De Donno; Allegra D’Incecco; Federico Dinelli; Matteo Falcone; Andrea Farì; Giovanni Ferri; Eugenio Fidelbo; Fabio Giglioni; Stefano Giubboni; Francesco Grassi; Stefano Grassi; Annalisa Gualdani; Omar Hagi; Elena Irrera; Mauro Lombardi; Carlo Marzuoli; Massimo Monteduro; Danilo Pappano; Alessandra Pioggia; Francesco Rossi; Dian Schefold; Girolamo Sciullo; Simone Torricelli; Susana Viñuales. Il coordinamento organizzativo è stato fatto da Francesco Grassi.